Milano si prepara a diventare per una settimana la capitale planetaria del commercio equo e solidale. Dal 23 al 31 maggio centinaia di piccoli produttori, in rappresentanza delle organizzazioni di una settantina di Paesi, parteciperanno alla
World Fair Week, un’iniziativa che nella città di Expo 2015 vuole raccontare l’universo del commercio equo. Dalla moda all’agricoltura, dalla cucina al consumo, sei eventi tematici parleranno di un altro modo di nutrire il pianeta, che mette al centro le comunità locali e il loro sviluppo. L’appuntamento però cade in un momento di crisi.
In Italia
l’equosolidale ha registrato una flessione importante di ricavi: Agices,
l'associazione di categoria delle organizzazioni di commercio equo italiane,
registra nel suo ultimo rapporto un calo del 6% nel 2013, pari a una perdita di
4,8 milioni di euro.
Un calo avvenuto nelle 'botteghe del mondo', i punti vendita di associazioni e cooperative, ma anche per la prima volta – è questo il segnale forse più allarmante – anche nella grande distribuzione: i supermercati e negozi che mettono in vendita sui propri scaffali prodotti equosolidali. Nato negli anni ’60 per promuovere un sistema economico fondato su principi di giustizia – garantire prezzi equi, migliori condizioni di lavoro, rapporti commerciali trasparenti attraverso un rapporto continuativo con i piccoli produttori del Sud del mondo – il commercio equo e solidale vive oggi una fase di profondo cambiamento. Lo conferma Rudi Dalvai, italiano, presidente della World Fair Trade Organization, che riunisce a livello mondiale tutte le organizzazioni equosolidali: «Sui dati negativi ha pesato la crisi economica che tutti conosciamo. È innegabile però che il commercio equo un po’ in crisi sia. Non dico che abbia bisogno di reinventarsi, perché il messaggio resta sempre lo stesso. Ma di rivitalizzarsi sì».Eppure le motivazioni non sembrano essere venute meno. Il numero di volontari è addirittura aumentato: sono 32.770 le persone che in Italia sostengono il commercio equo partecipando a una sua realtà sul territorio. E oltre cinquemila i volontari dedicano in modo attivo il proprio tempo. Studenti ma anche pensionati: nel weekend sono spesso loro ad aprire i negozi. Si occupano della vendita ma anche di sensibilizzare gli acquirenti sulla possibilità concreta di sostenere un’economia di giustizia, che rifiuta la logica di sfruttamento delle persone e dell’ambiente in nome del profitto a ogni costo. È la stessa motivazione che ha spinto Rudi Dalvai, 58 anni, a lasciare trent’anni fa il suo lavoro in un’azienda di surgelati di Bolzano per buttarsi nell’avventura di un movimento internazionale che stava crescendo. E di cui oggi vede le diverse fasi: la partenza come movimento di base, conosciuto da pochi e con tanto idealismo, le grandi battaglie politiche e le campagne di boicottaggio nei confronti delle multinazionali. Fino alla scelta nei primi anni 90 di creare un marchio di certificazione per far sì che i prodotti potessero entrare nella grande distribuzione. Una svolta che ha avuto successo. Da metà degli anni 90 fino al 2005 il commercio equo e solidale in Italia ha avuto fatturato in crescita, anche a ritmi del 30% l’anno. Con la crisi, soprattutto dal 2008, ha mantenuto ricavi costanti. Poi il calo. E questo nonostante l’accresciuta sensibilità dei consumatori verso il biologico, la nascita di mercati dove i contadini vendono direttamente ai consumatori e dei gruppi di acquisto solidale. Almeno in potenza, un terreno più favorevole rispetto al passato. Il punto è proprio questo, secondo Dalvai. «Nei singoli Paesi il movimento equosolidale deve cominciare a fare più rete con le diverse pratiche di economia sociale a livello nazionale. E questo vale per l’Italia così come per gli Stati Uniti e l’India. Bisogna anche allargare il concetto di commercio equo, rinnovarne gli schemi». In alcuni Paesi europei – in Italia si sta cominciando ora – si è scelto di sviluppare il 'domestic fair trade'. Il consorzio Altromercato ha creato 'Solidale Italiano', un marchio per i prodotti realizzati da produttori italiani secondo i principi del commercio equo e solidale. Gepa, la principale organizzazione di fair trade tedesca, ha lanciato il cioccolato fatto con il latte equosolidale della Baviera. Dati recentissimi sembrano dar ragione a questa svolta: nel 2015 in Germania l’equosolidale ha avuto una crescita dell’8% di fatturato rispetto all’anno precedente. Lo schema classico del nord del mondo che compra i prodotti del sud del mondo per sostenere i produttori locali non regge più? Presto per dirlo, ma è chiaro che gli stessi concetti geopolitici di nord e sud, così come quello di 'Paesi in via di sviluppo' non sono gli stessi di sessant’anni fa, quando il movimento ha cominciato a muovere i primi passi. Anche la separazione netta fra Paesi produttori e Paesi rivenditori ha perso significato. A un certo punto, negli anni 90, c’è stato il tentativo di incentivare il commercio equosolidale sud-sud, per esempio fra Paesi africani e asiatici. Non ha funzionato. In India, dove esiste un commercio equo ormai ben sviluppato, si è tentato di far arrivare i prodotti del Ghana, ma i dazi e le spese di trasporto erano troppo alti. Sembra un paradosso, ma costava meno spedire i prodotti in Europa e dall’Europa mandarli in India. Ciò che invece ha funzionato e sta crescendo è la rete di commercializzazione interna ai Paesi, a livello locale. «In Paesi come Bolivia, Perù, Cile si sta sviluppando molto bene, ma anche nelle Filippine, India, Tailandia, Vietnam e in Bangladesh». Questa secondo Dalvai è la strada per la rinascita del commercio equo anche in Italia. Ma le sfide aperte sono anche altre. In Inghilterra ormai tutti i supermercati vendono prodotti certificati equosolidale, il 75% della popolazione conosce il marchio fairtrade, e aziende come Nestlé e Starbukcs vendono caffè equosolidale, il tutto per un fatturato di circa 6 milioni di euro. In Italia siamo ancora lontani da questi traguardi. Non solo. Le organizzazioni che fanno al cento per cento commercio equo e solidale rischiano di rimanere indietro perché i supermercati vendono gli stessi loro prodotti a costi inferiori, potendo contare su alti volumi di vendita. «Dobbiamo comunicare meglio che il rapporto con il produttore è al centro della nostra attività, che c’è un commercio equo con questo valore aggiunto – afferma Dalvai –. L’obiettivo di chi fa commercio equo non è solo soddisfare il consumatore, offrendogli un prodotto di qualità ed etico, ma continuare ad appoggiare i piccoli produttori, perché il problema dello sfruttamento non è risolto. Vediamo ancora tragedie come vent’anni fa. I bambini resi schiavi per produrre il cacao e il cioccolato ci sono ancora. Così come lo sfruttamento dei lavoratori nel settore tessile». Per comunicare meglio questa identità l’Assemblea generale italiana del commercio equo e soldiale (Agices) ha da poco lanciato 'Equo Garantito', un marchio che dovrà contraddistinguere i punti vendita al cento per cento di commercio equo e solidale. La World Fair Week sarà l’occasione per fare un bilancio e anche per raccontare gli innegabili traguardi raggiungi dal movimento, anche sul fronte di un consumo più consapevole. «Trent’anni fa il biologico era ridicolizzato – ricorda Dalvai –. Oggi nessun supermercato potrebbe evitare di venderlo. Fino a pochi anni fa negli Stati Uniti sembrava che tutti dovessero bere un’unica marca, invece oggi in ogni paesino oggi c’è una birreria artigianale. È cresciuta l’attenzione a consumare prodotti locali nel rispetto dell’ambiente, sono nati i mercati dei contadini e i gruppi di acquisto. C’è stato un cambiamento di tendenza e sono sicuro che il commercio equo è stato parte di questo cambiamento. Ora deve porsi più in sinergia con tutti questi fenomeni». L’obiettivo resta quello di un’economia più solidale e umana, a ben vedere lo stesso messaggio che continua a ribadire Papa Francesco: «Lui è capace di toccare veramente le questioni che bruciano, le ingiustizie, in modo così diretto e così semplice. Se potessimo sceglierlo, sarebbe il nostro testimonial».