Vivere il presente. Voldemort o rapper, non possiamo restare sotto una campana di vetro
Emis Killa (Emiliano Rudolf Giambelli), 34 anni, è un rapper di successo. Le sue canzoni sono state accusate di omofobia e sessismo
«Tu sai chi». «Voi sapete chi»: coloro che hanno letto la saga di Harry Potter della scrittrice inglese J. K. Rowling sanno bene a chi si riferiscono queste espressioni. È una delle cose che più mi ha colpito di quella storia, fin dalla prima volta che l’ho letta. Poiché Voldemort, il mago oscuro più temuto di sempre, suscita terrore al solo pensiero, le persone evitano di nominarlo. Anche quando i segnali che Voldemort è tornato diventano chiari, moltissimi continuano a negare l’evidenza. Anzi, chi afferma che Voldemort è di nuovo un pericolo viene preso di mira, accusato di seminare il panico. Meglio voltare la testa dall’altra parte, fare finta che nulla sia cambiato. Nella scuola di Hogwarts, moltissimi fanno così: dire il nome di Voldemort è uno scandalo, le orecchie non devono sentirlo. Meglio tenere gli studenti sotto la campana di vetro per tutelarli. Ma è tutto inutile: anche se non si pronuncia il suo nome, Voldemort c’è. La campana di vetro è non solo inutile, ma anche inefficace, perché impedisce di attrezzarsi per contrastare il pericolo.
È di questi giorni la notizia del concerto del rapper Emis Killa annullato a Ladispoli a seguito di una serie di proteste. Emis Killa è stato accusato di scrivere testi sessisti, che inneggiano alla violenza sulle donne. In particolare, il testo finito nel mirino delle critiche è “Tre messaggi in segreteria”. Nel brano parla in prima persona uno stalker che, lasciato dalla sua fidanzata, la cerca ossessivamente, dà fuori di testa perché lei non gli risponde ed è stata vista parlare con un altro e, alla fine, ubriaco, guida verso casa di lei con intenzioni estreme. È un brano agghiacciante, che mette i brividi, soprattutto sull’onda emotiva dei fatti di cronaca di questi giorni. Ma censurare Emis Killa non serve: quel brano andrebbe ascoltato, perché racconta dinamiche reali, da cui tutti dobbiamo stare in guardia.
Quel brano, paradossalmente, può essere un antidoto contro la violenza. Come devi conoscere Voldemort per poterlo combattere, così devi conoscere le dinamiche che si muovono all’interno di una relazione tossica per potertene guardare. Emis Killa ha denunciato un problema, proprio come i Måneskin che, nella stupenda canzone “Mark Chapman”, denunciano il fenomeno dei fan stalker, riferendosi a colui che uccise John Lennon.
La canzone dei Måneskin potrebbe essere letta come la storia di qualsiasi amore che smette di essere amore e diventa ossessione e delitto. Allora perché “Mark Chapman” dei Måneskin non ha creato scandalo e “Tre messaggi in segreteria” di Emis Killa sì? Forse perché i Måneskin parlano dal punto di vista della vittima, mentre Emis Killa si mette nei panni del carnefice e racconta in prima persona. Ma questo è sempre legittimo da parte di un artista: in letteratura si insegna che l’io narrante, cioè il personaggio che in un’opera racconta le vicende in prima persona, è spesso diverso dallo scrittore reale. Se Emis Killa dà voce in prima persona a uno stalker, non può essere accusato di esserlo: è così ovvio che non andrebbe nemmeno precisato.
Qualche anno fa il cantante di origine ghanese Bello Figo finì alla ribalta per i suoi testi estremamente provocatori e volgari. Uno in particolare fece scandalo: “Non pago affitto”, nel quale si dava voce a un immigrato clandestino che era arrivato in Italia e non voleva lavorare, perché già gli erano state date case, macchine e donne. Un immigrato che pretendeva alberghi a quattro stelle e una vita lussuosa, senza sporcarsi le mani. Un giorno, in classe, alcuni ragazzi mi chiesero che cosa ne pensassi di quella canzone. Chiesi il tempo di ascoltarla.
L’indomani aprii la discussione, che fu molto partecipata. Tutti concordarono sul fatto che Bello Figo, con parole sessiste, sgradevoli e grottesche, aveva raccolto in un testo molti stereotipi, pregiudizi e fake news in circolazione sugli immigrati. Era evidente che l’io narrante non coincidesse con l’autore, ma che si trattasse di una provocazione estrema e forse inopportuna. Parlare di Bello Figo fu però anche l’occasione per discutere di immigrazione, delle leggi che la regolano, di scenari internazionali, di possibili proposte. Finimmo per affrontare un problema attualissimo andando oltre la superficie.
Uscii dalla classe molto soddisfatto. Poi, la sera, mi chiamò il Preside. Un gruppo di genitori aveva protestato perché avevo citato in classe Bello Figo, e questo, a loro avviso, non era opportuno. Quella classe era del triennio delle superiori, alcuni allievi erano già maggiorenni, ma di Bello Figo, secondo qualcuno, non si doveva pronunciare il nome a scuola. Non devi pronunciare il nome di Voldemort, anche se è lì fuori, o gli studenti di Hogwarts rimarranno traumatizzati.
La campana di vetro è esattamente il contrario di ciò che dovrebbe essere una scuola. Una scuola è un luogo privilegiato di osservazione del mondo. La scuola è chiamata a indicare la bellezza che apre il cuore, ma non può negare l’esistenza del dolore, della provocazione, della violenza, della volgarità. Una scuola di qualità non censura. Una scuola che prepara davvero alla vita non distoglie lo sguardo dal mondo in cui gli adolescenti sono immersi, né dai testi che ascoltano, anche se agli adulti non piacciono.
Chi educa non lascia i ragazzi soli di fronte a testi violenti, dicendo che fanno schifo e non dovrebbero esistere, perché i ragazzi li ascoltano e li cantano comunque. Chi educa si siede a fianco dei ragazzi e ascolta quei testi con loro, e prova a discuterne, stimolando in loro l’empatia e il senso critico, che sono gli strumenti per contrastare Voldemort. Chi educa accetta la sfida, invece di ritrarsi scandalizzato. Non guardare in faccia la realtà è devastante.
Manuela, una ragazza di quarta superiore, mi raccontava spesso di un fratello più grande finito del mondo della delinquenza: spaccio, furti, scommesse clandestine. Tornava di notte fuori di sé; a volte spaccava oggetti e minacciava i genitori. Per alcuni giorni era sparito di casa perché persone poco raccomandabili lo cercavano. Manuela era disperata; aveva provato a contattare i carabinieri in prima persona, dato che la sua famiglia non voleva saperne. A un colloquio incontrai la mamma e il papà di Manuela. Rimasi di stucco. Prima parlarono della figlia, fieri: era una persona solare e impegnata. Poi accennarono dell’altro figlio: «Ha qualche problemino», dissero. Problemino? «Niente di grave - continuarono -. Sa come sono i ragazzi, qualche piccola trasgressione più capitare. Ma è tutto sotto controllo».
Il ragazzo in questione aveva ventisei anni e le piccole trasgressioni erano reati penali. Il giorno dopo Manuela mi cercò. «Com’è andato il colloquio coi miei genitori?», mi chiese. Ma non mi diede il tempo di rispondere: «Lo so, sono parte del problema». Manuela ce l’ha fatta, per fortuna. La sua forza d’animo e la sua positività hanno avuto la meglio. Un giorno mi cercò e mi disse parole che mi commossero profondamente: «Ho deciso cosa fare della mia vita, prof. Lavorerò con chi è stato in carcere. Nella vita certi mostri possono divorarti, l’ho visto in mio fratello. Perciò, se ci sono persone che provano a combattere contro i loro mostri, io lotterò al loro fianco. Questo può dare senso alla mia vita e alla mia sofferenza».
Manuela ha tenuto fede al suo progetto. Non si è tirata indietro, non ha guardato dall’altra parte. Ha fatto come Harry Potter ed Ermione, che non parlano di «Tu sai chi», ma nominano Voldemort chiamandolo espressamente per nome. Perché guardare in faccia le cose più sgradevoli e avere il coraggio di chiamarle per nome significa già affrontarle, è già un primo passo verso la soluzione.
Marco Erba è insegnante e scrittore