Francia. Come si può fare integrazione in una società che si disintegra?
Le drammatiche rivolte nelle banlieue francesi hanno trovato nell’uccisione di Nahel per mano di un poliziotto il detonatore ideale, ma la miscela dell’esplosione era pronta da decenni e da decenni infiammabile e infiammata in modo ricorrente non solo in Francia. Questa miscela ha una composizione “chimica” (sociale, economica, politica, ideologica, religiosa) complessa, e difficile da rendere inerte quanto al suo scoppio. Ha l’instabilità della nitroglicerina, e sarebbe già tanto “ridurla” a dinamite, più gestibile in senso di sicurezza.
Di questa complessità vorremmo svolgere un filo. E cioè l’integrazione mancata dei non autoctoni francesi anche di seconda o terza generazione. Riguarda i francesi, ma riguarda tutti noi europei. Una, si ba-di una, ma mi sembra decisiva, delle ragioni di questa mancata integrazione la riassumo in una domanda. In quale società dovrebbero integrarsi gli immigrati, in non autoctoni (magari anche già cittadini de jure del proprio paese sentito come non proprio)? Che si traduce in un’altra domanda. È possibile integrarsi in una società senza tessuto comunitario o con un tessuto comunitario largamente stracciato? In una società dell’individualismo? La mia tesi è che integrarsi in modo soddisfacente e diffuso, al netto di un tasso sostenibile di marginalità, in una società dell’individualismo non è possibile.
Il modello richiede un successo competitivo individuale che è affare di pochi: si realizza nel jet set (dove magari un non autoctono può diventare primo ministro) o sui palchi dello star system. Un modello che promette alle masse quello che non potranno mai raggiungere. E quando il successo individuale viene meno, o è sempre più inarrivabile o difficile da mantenere (ne ha descritto qualcosa la “società liquida” di Bauman), l’individuo rifluisce in un gruppo o in una comunità di tutela. Agli estremi della scala, in un vario mixage, un gruppo criminale o una comunità in dissenso, fino alla rivolta, dalla società in cui vive. Ora la domanda diventa: cosa offriamo, cosa offrono le nostre società dell’individualismo, ora sfrenato ora disperato, di integrazione comunitaria agli immigrati?
Di un’integrazione che non siamo in grado, nella crisi del welfare, di garantire neanche a noi stessi? Tanto che a questa società noi stessi rifiutiamo l’appartenenza futura della generazione, rifiutando di far figli. Il dramma della società dell’individualismo mercatorio che abbiamo messo su (addobbandolo con gli stracci di diritti sempre più a caratura individuale, senza doveri neanche verso sé stessi) è in due indicatori: concentrazione paurosa della ricchezza, altrettanto paurosa crisi demografica. Una società di questo tipo non può integrare nessuno: né sé stessi, né gli “altri”. Perché è una società in preda all’anomia, incapace di controllo sociale comunitario, cioè, sentito suasivo trasmesso in via affettiva e relazionale, “naturalmente” introiettato e quindi da sé coesivo per la tenuta sociale. In assenza di questa funzionalità coesiva del tessuto comunitario, gli individui possono essere affidati (senza che lo riconoscano intimamente, senza che possa neanche nascere o tenersi “senso dello Stato” se non per obbligo o timore) al controllo artificiale delle istituzioni, o della complessiva governance (sociale, politica, economica) di questa società dell’individualismo. Legge e ordine e polizia, la mano della legge, regimi autoritari.
O in modo più soft e subdolo, il controllo capillare e il direzionamento dei comportamenti servoassistito dall’IA e “indorato” dalla pillola dello sfogo concesso alle pulsioni, grazie a stupefacenti di varia classe merceologica (dalle droghe, alla persuasione occulta, o all’esercizio “libero” della propria individualità che chiede riconoscimento, epperò ridotta sempre più alla titolarità della propria espressione sessuale), lasciando in caserma fino a quando non ci sia necessità i corpi di polizia. È la tragedia dell’individualismo e delle false promesse in merito della modernità (Beck: la “società del rischio”). Che ogni individuo avrebbe avuto una “vita propria”, la possibilità di disegnarsela, fuori da ogni vincolo, à la carte. Si è visto come sta finendo: la “vita propri” in sostanza e in diritto promessa a tutti, alla fine è vita sempre più diseguale e quindi in sostanza e spesso anche in diritto sempre meno propria.
Chi vogliamo integrare in questo meccanismo di disintegrazione sociale? Inutile girarci intorno: abbiamo bisogno di “reagire”, abbiamo bisogno di una profezia della comunità – dalla famiglia, ai corpi intermedi, alle filiere formative, alla governance sociale e politica. Ed è una cosa non di destra o di sinistra ma una questione di sopravvivenza anche per la società degli individui. Per noi e per gli “altri” con cui dobbiamo convivere, nella speranza che un giorno si possa vivere insieme, lasciandoci alle spalle la stessa questione della con-vivenza, di uno stare insieme che è anche in modo subliminale uno stare in guardia gli uni contro gli altri.