Domeniche. Come può dalla nostra materia nascere l'amore?
È semplicemente una radiografia al torace, dopo una brutta bronchite. Il medico è uscito un attimo e ha lasciato la schermata accesa sul pc. Così ho cinque minuti per guardare ciò che, pure subissati di immagini, non vediamo mai: noi stessi, ciò che materialmente siamo. Quel corpo che ci accompagna per tutta la vita, e di cui ci si ricorda solo quando ci ammaliamo. Io non sono malata, almeno credo, non sto aspettando alcun verdetto: ma la luce bluastra, notturna, della lastra mi induce a osservarla come fosse un mondo che mi si spalanca davanti. Un mondo dentro di noi, costruito nel ventre di nostra madre e sviluppato in silenzio, seguendo l’ordine della genetica e le eredità familiari. Osservo la curvatura simmetrica delle costole, come una corazza a proteggere i polmoni, e il cuore. Quelle ramificazioni spoglie come rami d’inverno sono i bronchi. Intravvedo, dietro, una netta asimmetria della colonna: una scoliosi genetica, identica a quella di mia madre.
È sempre con una certa inquietudine che osservo queste fotografie della “macchina” che mi sta dentro. La fine trama delle articolazioni delle mani, o lo stomaco, non così diverso da quello di un animale, svelato da una gastroscopia. Mi turba, riconoscere come sono dentro; perché vedo arterie, cartilagini, ossa – insomma, carne. L’impalcatura che mi regge è materia. Se anche una Tac all’encefalo mostrasse le meningi o l’ipotalamo, sempre materia “inanimata” sarebbe – sostanza cieca, roba. Allora mentre osservo l’inquietudine volge in un’angoscia. Siamo materia eppure pensiamo, cresciamo, vogliamo vivere. Questa constatazione, benché così ovvia, mi provoca uno sbalordimento: assurdo, siamo carne, eppure amiamo. Forse un neurologo potrebbe spiegare come si compie il passaggio dalle sinapsi al pensiero, con formule incomprensibili. Tuttavia in me resta viva la domanda di fondo che avevo da bambina: se tutto di noi è in questi sessanta chili membra, nervi e viscere, com’è, che gli uomini sanno amare. Com’è, che dall’incontro di due microscopiche schegge di carne, un seme e un ovulo, scatta una scintilla che subito si moltiplica, e il cuore, molto presto, comincia a battere, e batterà magari per cent’ anni. Sono certamente un’ignorante, eppure l’ordine cui obbedisce questo universo che abbiamo dentro, nella luce oscura di una radiografia, mi sbalordisce. Molto di più dell’Intelligenza Artificiale. Perché quella è comunque un progetto degli uomini.
Ma noi, chi ci ha progettato? Educata in una cultura materialista, davanti alla prima ecografia di mio figlio nel grembo avevo sussultato: no, niente della ragione e delle filosofie che mi avevano insegnato spiegava “quel-lo”, quel centimetro palpitante, rannicchiato su se stesso, già con vaghe forme d’uomo. Il più grande dei misteri lo abbiamo dentro. Davanti all’ecografia di un bambino che va formandosi verrebbe da chinare la testa: siamo creature, siamo figli. Mi pare un’evidenza. Un’evidenza negata dal nostro tempo, che proprio di quegli esseri in divenire nega l’umanità – finché sono così piccoli, finché sono nel buio. Finché ci si può raccontare che sono solo un grumo di materia – cioè un nulla. (Quel nulla da cui tenacemente però, se solo aspetti, nasce un uomo).