Opinioni

La premessa della «ricostruzione». Come in un dopoguerra

Gianfranco Marcelli martedì 11 novembre 2014
Al volgere del settimo anno di una crisi che vede il Paese impantanato in una sorta di palude senza approdi, può apparire singolare che dai vescovi italiani giunga al mondo politico, accanto all’indicazione di attese e bisogni molto concreti, anche un invito alla riflessione. Potrebbe perfino stupire che, proprio mentre sembra più urgente la necessità di passare dalle parole ai fatti, il presidente della Cei concluda la sua prolusione di apertura all’assemblea straordinaria di Assisi con la richiesta di anteporre – o quanto meno di accompagnare – all’azione capace e determinata una cruciale «premessa». Eppure non è il caso di meravigliarsi. La sollecitazione non è a indugiare, ma a cercare un senso all’agire. Perché molti ormai se ne stanno convincendo: l’Italia appare oggi sempre più somigliante a quella dell’immediato dopoguerra, anche se (fortunatamente?) «le macerie dell’alfabeto umano» di oggi sono pesanti, ma ben diverse da quelle delle case e delle strade di allora.È bene, tuttavia, richiamare alla memoria quale spinta interiore condivisa, quale disegno comune, pur nelle differenze ideali e negli asperrimi contrasti politici, guidarono i nostri padri e nonni ad avviare una ricostruzione capace di stupire il mondo. Quella «premessa» non tolse tempestività né efficacia alle opere da intraprendere, a cominciare dalla redazione, condivisa in larghissima misura, della Carta costituzionale che sigillò sul piano istituzionale il nuovo patto repubblicano. E la «premessa» di allora, quella capace di innervare il progetto di rinascita nazionale, si declinò nei principi della solidarietà, della giustizia e della promozione sociale, della tutela dei diritti umani fondamentali, a cominciare dalla vita e dalla famiglia fondata sul matrimonio.E oggi? Forse oggi è indispensabile rendersi conto – in via preliminare, appunto – che la nostra crisi economica si innesta in una più ampia e devastante crisi culturale, comune all’Europa e all’intero Occidente. Come se ne può uscire? Certamente mobilitando le migliori capacità e le più accurate competenze, purché però contemporaneamente ci si metta all’ascolto di un magistero credibile, e cioè dell’«autorità alta» di quanti soffrono. Perché, ricorda il cardinale Bagnasco, solo «l’ascolto delle sofferenze illumina e guida ogni politica» che ambisca a «essere forma alta di servizio».Se questa è «la premessa» – e non importa quanto rimane implicita, purché sia ben presente a chi decide – non dovrebbe rivelarsi un’impresa impossibile rifondare l’azione politica su un nuovo «patto», capace di individuare le priorità giuste, di dare a ogni bisogno un’equa valutazione comparata, incrociando i livelli effettivi di «sofferenza» e le risorse disponibili. Chi può negare, ad esempio l’effetto devastante della mancanza di lavoro su una generazione che «si sta perdendo»? Non è forse indispensabile fare di tutto per evitare che milioni di giovani cadano nella rete di «loschi personaggi», che sfruttano la "dottrina" della globalizzazione per arricchire solo se stessi?Nel frattempo, l’unica realtà che sta concretamente aiutando la generazione dei precari a non perdersi è la famiglia. Su questo pure, lo si ammetta una buona volta, non sono possibili dubbi: senza la rete di sostegno allestita dalle generazioni adulte e mature (ancorché forse a suo tempo colpevoli di egoismo), quale sarebbe oggi il panorama sociale? Ma allora perché tanta titubanza nel dare più corpo, più continuità, più "struttura" al primo «doveroso sostegno» promesso con i 500 milioni stanziati nella legge di Stabilità 2015?Altrettanto «sorgente di futuro» della famiglia è – lo sarà in ogni tempo – la scuola: la sua capacità di formare e di "e-ducare", cioè di trarre fuori da ogni essere umano il meglio che può offrire alla comunità civile. Oggi il governo annuncia l’intenzione lodevole di dare all’istruzione una svolta per andare in questa direzione. Ma perché allora perseverare nella discriminazione della scuola paritaria, che è pubblica come la statale e quella missione formatrice assicura, con pesanti sacrifici delle famiglie (niente affatto tutte e solo "ricche") che la scelgono e degli istituti che la incarnano?