Come il Nobel fa la guerra. Vulcano Etiopia: Abiy contro il Tigrai
La guerra dichiarata dal premier etiope, più recente Nobel per la pace africano, al Tigrai, Stato autonomo della sua nazione federale, lo scorso 4 novembre e tenuta nascosta al mondo grazie al blackout di internet e delle linee telefoniche è un duro colpo. E non solo al prestigio di Abiy Ahmed. Chi aveva creduto solo un anno fa alla consegna del prestigioso premio a Oslo, nel pieno di una vera e propria Abiy mania, che il riconoscimento al più giovane leader politico africano (44 anni) protagonista della pace con l’Eritrea dopo oltre 20 anni di 'conflitto congelato' significasse speranze di modernizzazione, democrazia e sviluppo per il Corno d’Africa e l’intero continente, oggi assiste incredulo all’involuzione autocratica dell’ex uomo nuovo di Addis Abeba, che si dimostra privo di una visione complessiva. Ricorre infatti alla rozza scorciatoia dei bombardamenti contro i bellicosi tigrini del partito del Tplf in una regione cardine dell’identità etiope come fecero il Negus e il regime marxista del Derg con il rischio che il conflitto si estenda in altre regioni portando il Paese alla guerra civile etnica in un tragico bis africano dei Balcani.
Abiy si comporta come gli acerrimi avversari del Tplf, suoi predecessori alla guida del fragile colosso africano dal 1991 fino al suo avvento nel 2018, imprigionando in questi primi giorni di conflitto giornalisti non conformi alla linea del governo e funzionari statali di origine tigrina e sostituendo di colpo i vertici dell’intelligence dell’Esercito e il ministro degli Esteri con suoi fedelissimi.
In più non risponde neppure agli appelli al dialogo di papa Francesco, del segretario generale delle Nazioni Unite, dell’Unione Africana, della Ue e degli Usa. Si limita a garantire via Twitter che la guerra non si estenderà al resto del Paese e ai Paesi confinanti, degradandola a mera «operazione di polizia» contro una «banda di criminali» con i quali non si può dialogare.
Le poche notizie finora trapelate contraddicono palesemente Abiy. I morti da entrambe le parti sono centinaia, ieri Amnesty International ha pubblicato le immagini una strage di civili attribuibile non si sa a chi. Sono fuggite in Sudan oltre 10mila persone, la metà bambini. E nel conflitto sono già entrate a fianco dell’esercito federale le milizie Amhara e i paramilitari Liyu dell’Oromia. Ma le milizie regionali Oromo e Afar, i dancali, sono alla finestra, prefigurando scenari futuri da guerra civile. Il Nobel Abiy avrebbe dovuto contrastare con riforme democratiche e sviluppo civile il crescente etnonazionalismo frutto del federalismo spinto creato dal lungo governo del Tplf che lascia ai diversi Stati autonomi persino il potere di creare milizie armate.
Questo ha accresciuto le spinte secessioniste, creando un equilibrio fragile che per la prima volta nella storia etiope rischia di rompersi. Non è facile governare con la non-violenza, certo, ma Abiy accanto alle riforme ha usato anche il pugno di ferro e prima del conflitto nel Tigrai ha represso con brutalità, causando molte vittime, anche le manifestazioni degli Oromo, la sua stessa etnia che per la prima volta governa il Paese e che gli rimprovera di non favorirla. Poi ha cacciato i membri del Tplf dai posti chiave del potere federale fino alla loro uscita dal governo nazionale, dando il via a un braccio di ferro pericoloso.
Ma i tigrini, il 6% della popolazione, in questo quarto di secolo al potere si sono armati e rafforzati fino a sfidarlo sul suo stesso terreno, la democrazia. A settembre nel povero e arido Tigrai si sono infatti tenute le elezioni, mentre a livello nazionale il premier continua a rinviarle causa Covid. E Abiy non ha riconosciuto quel voto. Da lì, in un crescendo di reciproche delegittimazioni si è arrivati alle armi, la sconfitta del Nobel per la pace. Che in questi mesi ha frequentato molto – per diversi commentatori, troppo e soprattutto in installazioni militari, copiandone i metodi – il dittatore eritreo Isayas Afewerki, ex nemico e, a sua volta, acerrimo nemico del Tplf.
Chi può dare una chance alla pace è l’Italia, che per i suoi legami storici e l’opera della Cooperazione internazionale è stimata e considerata super partes. È tempo di fare il possibile per fermare questo nuovo 'conflitto oscurato' che può incendiare il Corno d’Africa e far ripartire le fughe lungo rotte migratorie bloccate dalla pandemia.