Ambiente e salute. Come cambiare gli stili di vita per prevenire le pandemie
C’è stato un tempo in cui ci eravamo illusi di esserci liberati dalle malattie infettive. Ce lo aveva fatto credere la disponibilità di vaccini e di antibiotici. Ma poi sono arrivati i batteri resistenti agli antibiotici e nuove varietà di virus che non conoscevamo. E abbiamo dovuto ricrederci. Fra le ragioni che favoriscono lo sviluppo di batteri resistenti, come ormai si sa, c’è senz’altro l’uso eccessivo e inappropriato di antibiotici. Se ne prescrivono troppi, nelle dosi sbagliate e di tipo errato. Per di più sono usati come pratica abituale negli allevamenti animali.
Una volta sviluppati, i batteri resistenti si diffondono nell’ambiente tramite le acque di scarico, per contagio fra persona e persona, per trasmissione da animali a persone, per contaminazione alimentare. Fatto sta che secondo l’Organizzazione mondiale della sanità ogni anno 700mila persone nel mondo muoiono a causa di un’infezione dovuta a batteri resistenti agli antibiotici. Di queste, secondo le stime del Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie, 33mila si registrano nell’Unione Europea e oltre 10mila riguardano il nostro Paese. La Commissione britannica per l’antibiotico-resistenza ( Review on Antimicrobial Resistance) stima che nel 2050 le infezioni batteriche causeranno, a livello mondiale, circa 10 milioni di morti all’anno, superando ampiamente i decessi per tumore (8,2 milioni), diabete (1,5 milioni) o incidenti stradali (1,2 milioni) I più esposti saranno i ricoverati in ospedale, dove i batteri resistenti si sviluppano con maggior frequenza, le persone immunodepresse e quelle con patologie croniche.
Lo studio più recente sulle nuove malattie infettive che si sono sviluppate negli ultimi decenni, risale al 2008 ed è di un gruppo di ricercatori, fra cui Jones, Patel, Levy e altri, che pubblicarono la loro ricerca sulla rivista Nature. Essi hanno appurato che dal 1940 al 2004 si sono avute 335 nuove malattie infettive, per il 54% dovute a batteri e rickettsie, per lo più batteri che avevano sviluppato resistenza agli antibiotici come lo stafilococco aureo resistente alla vancomicina. Al secondo posto vengono i virus che rappresentano il 26% delle nuove malattie infettive. Infine, i protozoi (11%), i funghi (6%) e i vermi (3%). Ma il dato più sorprendente è che il 60% di tutte le nuove infezioni è stata causata da patogeni di origine animale (zoonosi), il 72% dei quali provenienti da animali selvatici. E se concentriamo l’attenzione sulle nuove infezioni verificatesi nel decennio 1990- 2000 si scopre che le malattie provenienti da animali selvatici rappresentano il 52% del totale. Perciò lo studio conclude che è fondamentale capire in che modo si sono intensificati i contagi da parte degli animali selvatici.
Il passaggio di agenti patogeni dagli animali agli umani è noto come spill over, traducibile come salto, passaggio di specie. Un evento possibile, ma con esito ogni volta diverso in base al tipo di interazione che si instaura fra il nostro organismo e il nuovo ospite. Il più delle volte la contaminazione si esaurisce senza conseguenze di rilievo, altre volte invece si trasforma in ma-lattia ad alta trasmissibilità. Un caso del genere si è verificato negli anni Settanta-Ot- tanta con l’Aids: un retrovirus che abitualmente parassitava scimpanzé e gorilla dell’Africa Occidentale transitò negli umani per mezzo del sangue infetto proveniente dagli animali catturati e macellati. Il virus, poi battezzato Hiv, ben si adattò alle cellule umane e il contagio continuò per trasmissione diretta da umano a umano. Storia analoga per la Sars, polmonite virale comparsa in Estremo Oriente nel 20022003 e che, grazie anche all’abnegazione di Carlo Urbani, il medico che isolò il virus, per fortuna rimase circoscritta. Secondo le ricerche condotte da un gruppo di ricercatori cinesi dell’Istituto di virologia di Wuhan, la malattia proveniva da alcune specie di pipistrelli che vivono in grotte della provincia dello Yunnan. E si ritiene che anche il Sars-CoV2, che scatena la malattia nota come Covid-19, sia da attribuire al pipistrello e al pangolino, mammiferi comunemente cacciati e consumati in Cina.
Ma sono stati riportati casi in cui la contaminazione da parte di animali selvatici non è avvenuta come effetto di attività di caccia, ma come conseguenza della deforestazione che ha spinto gli animali selvatici fuori dal loro habitat naturale. L’Organizzazione mondiale della sanità, ricorda che in Africa Occidentale il primo caso di ebola si ebbe nel dicembre 2013 a Meliandou, un villaggio nel sud della Guinea ai confini con la foresta, che però era stata distrutta per l’80% da imprese minerarie e del legname. Di conseguenza il villaggio era stato infestato da pipistrelli fuggiti dalla selva distrutta. In effetti, il primo morto di ebola fu un bimbo di un anno e mezzo che secondo le testimonianze era posto abitualmente all’ombra di alberi popolati da pipistrelli che precedentemente vivevano nella foresta. Del resto non si tratterebbe neanche del primo caso di virosi disseminata da pipistrelli. Nei primi anni del nuovo millennio, in Bangladesh si ebbero circa 200 casi di Nipah, un encefalite virale ad alta mortalità. E risultò che tutti avevano consumato linfa estratta dalla corteccia di una particolare specie di palma. Ulteriori indagini accertarono che il veicolo d’infezione era stata proprio la linfa contaminata con deiezioni di pipistrelli che si posavano sulle palme per nutrirsi anch’essi della preziosa linfa.
L'Ipbes, il gruppo di lavoro intergovernativo sulla biodiversità, sostiene che mammiferi e volatili sono depositi naturali di 1,7 milioni di virus che ancora non conosciamo. Circa la metà di essi potrebbe avere la capacità di infettare gli umani. I serbatoi principali sono rappresentati da pipistrelli, roditori e scimmie oltre che da alcuni uccelli (principalmente acquatici) e animali da allevamento (maiali, cammel-li, pollame). Ogni anno c’è il rischio di veder comparire più di cinque nuove malattie infettive, ognuna delle quali potrebbe trasformarsi in pandemia. Ma il gruppo di lavoro avverte che è inutile prendersela con la natura. Piuttosto dovremmo concentrare la nostra attenzione sulle attività umane e sull’impatto che esse hanno sulla natura.
Pratiche come la deforestazione, l’espansione irrazionale delle città, l’agricoltura intensiva, la decimazione di varietà selvatiche a scopo commerciale, la riduzione della biodiversità, perfino i cambiamenti climatici dovuti all’aumento di CO2 in eccesso, sono tutti fenomeni che alterano gli equilibri ecologici, accrescendo, di conseguenza, il rischio di pandemie per l’intensificarsi di contatti e interazioni fra specie selvatiche, animali da allevamento e umani. Il gruppo di lavoro ritiene che il cambio d’uso dei terreni (deforestazione e urbanizzazione) abbia contribuito da solo a oltre il 30% delle nuove malattie infettive comparse dopo il 1960. La conclusione del gruppo Ipbes è che pur essendo d’obbligo produrre vaccini e cure per debellare le pandemie una volta che si sono conclamate, la vera sfida è prevenirle. Impresa possibile, ma per riuscirci bisogna ristabilire un rapporto corretto con la natura, virando verso forme di vita, ossia di produzione, di consumo, di mobilità e dell’abitare, ispirate a sobrietà, rigeneratività e armonia.