Opinioni

Editoriale. Don Coluccia fa rumore sulla piaga della droga. Quando ci svegliamo?

Maurizio Patriciello martedì 8 ottobre 2024
Ben vengano la solidarietà, le strette di mano, le polemiche e le prese di posizioni politiche. Ben vengano i consigli dei superiori preoccupati per l’incolumità di questo prete affidato alle loro paterne cure. A don Antonio Coluccia, però, non interessa tanto la propria sicurezza – anche quella, ci mancherebbe – ma portare a galla un fenomeno malavitoso talmente incancrenito da essere diventato “normale”. Il dramma è questo, al Quarticciolo come a Caivano, a Tor Bella Monaca come a Scampia e in tante altre periferie. Don Antonio sa bene che non sarà una passeggiata della legalità a risolvere il problema, eppure insiste. E i fatti gli danno ragione se un semplice corteo riesce a far saltare i nervi ai malavitosi. Non è tanto il mancato introito di una sera, proveniente dalla droga, a preoccuparli, ma il fatto che una persona – un prete, addirittura - si sia permesso di accendere i riflettori su un mondo che – pur stando sotto gli occhi di tutti – avrebbe dovuto godere, secondo loro, di uno “statuto speciale”. Legge non scritta ma attuata.

«Qui comandiamo noi. Lasciateci in pace. Dobbiamo mangiare tutti. A ognuno il suo. Badate ai veri problemi del Paese…». Tutti sanno. E quando dico “tutti” intendo la Roma dei professionisti, degli imprenditori, degli industriali, delle forze dell’ordine, della gente comune, dei preti, ma, soprattutto, della politica. È a questo punto che l’operato di don Antonio diventa insopportabile. Con la sua impeccabile talare nera dalla quale non si separa mai – ammettiamolo, tanti lo avrebbero preferito in jeans e maglietta malandata, un cosiddetto “prete antimafia” - don Antonio ci richiama alle nostre responsabilità. Qual è, dunque, la vera intenzione di questo giovane religioso salentino? Attirare l’attenzione su di sé? Certo non manca chi ha la faccia tosta di affermarlo. La solita tiritera: vuole apparire, vuole andare in televisione, ama la ribalta, non sono fatti suoi, chi crede di essere, e scemenze del genere. In genere chi le inventa ha tutto l’interesse a farlo. La prima arma di difesa di chi naviga nel fango è il fango stesso. Messo in un’apposita macchina, serve a occultare, a sporcare, a insozzare, a fare perdere credibilità. Molto più dei colpi di pistola valgono le calunnie. Generano dubbi, acquietano le coscienze intorpidite, dividono, devastano.

A don Antonio, la capitale d’Italia deve molto. Credo che abbia tanto da insegnare a tutti, a cominciare da noi preti, continuamente invitati e trascinati, da papa Francesco a uscire dalle sacrestie, a sporcarci le mani, a sentire gli odori delle pecore e il puzzo di coloro che ne farebbero un boccone. I lupi non dormono, sempre alla ricerca dell’agnellino da sgozzare. I lupi sono scaltri, occorre – parola di Gesù – essere scaltri almeno al pari di essi. Scaltrezza come metodo, il fine è il bene comune. Un bene, cioè, che appartiene a tutti ma che alcuni vogliono accaparrarsi. Se c’è una cosa che preoccupa don Coluccia non è tanto la propria incolumità. Lui ha già messo in conto tutto. Quando mise mano all’aratro sapeva bene il rischio che correva. No, non è questo a rendere insonni le sue notti, a mettergli le ali ai piedi, a distrarlo durante la Messa. A turbarlo sono gli uomini della sua scorta, per i quali sente una grande responsabilità. Tra loro è nata un’amicizia bella. Si sorvegliano a vicenda. Ognuno teme e trema per la vita dell’altro.

Don Antonio non è un ingenuo ma un prete a tutto tondo. Non sta esagerando. Sta solo – come gli ha raccomandato il Papa – facendo rumore. Tant’ è che i nomi di questi quartieri della periferia romana, fino a ieri sconosciuti alla maggior parte degli italiani, oggi non lo sono più. Don Antonio ci sta tirando giù dal letto dove pigramente avremmo continuato a dormicchiare facendo finta che, in fondo, il problema non esiste. Non sto dicendo che eravamo all’anno zero, tutt’altro, voglio affermare, ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, che questa guerra alla criminalità la vinceremo solo stando insieme. Un esercito preparato dove anche l’ultimo dei soldati e dei volontari è necessario per conquistare la vittoria. Un giovane professionista, una volta, ebbe a criticare una mia affermazione. Avevo detto che, a ben guardare, il problema della droga sono anche gli stessi drogati. Non ne era convinto. Per questo lo ripeto qui. Se non ci fosse la domanda la risposta cadrebbe da sola. Occorre chiarire una volta per tutte che i consumatori di droghe – persone oneste, giovani, padri di famiglia – oltre a rovinare se stessi alimentano la stessa malavita che li angaria. Scendiamo in campo, tutti insieme.

A don Coluccia il nostro ringraziamento e le nostre raccomandazioni. Sii prudente, caro confratello. Di eroi morti ne abbiamo già troppi. Sono un vero pugno nell’occhio. Falcone e Borsellino, don Diana e don Puglisi, insieme alla numerosa schiera di martiri che li accompagnano, ci fanno male. Stanno a dirci che hanno dovuto rinunciare alla loro vita anche perché non sempre gli altri hanno fatto il proprio dovere. Ci rimproverano per la nostra negligenza, la nostra pigrizia, la nostra ottusità. Don Antonio, continua – come già in modo mirabile stai facendo – a darci calci negli stinchi. Da vivo, però. Con perseveranza, forza, prudenza e quella virtù desueta che tanto piace al nostro Dio, l’umiltà. E tutti noi, che leggiamo le gesta di questo povero prete, cerchiamo di apprenderne la lezione. Non lo lasciamo solo. Soli si muore. Lo ripeto per i duri di orecchi: soli si muore. Scendiamo in campo, facciamogli scudo, moltiplichiamo a dismisura non solo le passeggiate della legalità, ma tutto ciò che serve a riportare lo Stato nelle nostre periferie.