L'inizio di un nuovo anno induce a riflettere con particolare fervore sul destino del mondo, delle nostre comunità e delle nostre famiglie. Il peso di una situazione di stallo sociale ed etico e di crisi economica e lavorativa rafforza la spinta a immaginare qualcosa di nuovo, di veramente nuovo, per i prossimi mesi e anni, che ci porti fuori dalla "morta gora" nella quale la nostra dimensione collettiva sembra essersi impantanata. Il "movimento del 9 dicembre", le manifestazioni che hanno attraversato le nostre città e che già cominciano a riproporsi, spingono ulteriormente nella direzione della ricerca di un senso per ciò che avviene attorno a noi, e soprattutto per ciò che avverrà. A questo proposito, le proteste cui abbiamo assistito vanno osservate e analizzate con attenzione, come tutti i fenomeni sociali, anche quelli che, per eterogeneità interna e mancanza di riferimenti ideologici e associativi, sembrano a prima vista privi di significato e di forza propulsiva.Le "primavere arabe", e altre forme simili di mobilitazione dal basso, dovrebbero d’altra parte averci resi consapevoli di come la cultura collettiva sia cambiata anche da questo punto di vista, senza che il cambiamento significhi azzeramento della spinta sociale. La scarsa partecipazione alle occasioni più tradizionali di partecipazione democratica (dal voto ai referendum, alle petizioni popolari) e la parallela forte utilizzazione dei canali mediatici (dalla televisione a internet) sono due elementi che spiegano le ragioni del dipanarsi, specie nei momenti critici, di un movimentismo spontaneo e pilotato dalle aggregazioni e dai messaggi veicolati dalla rete. Un movimentismo che si presenta, di conseguenza, informe e contraddittorio. In questo senso ci si può fare poco affidamento, perché non è facile capire da dove partano gli impulsi e quali siano le linee di tendenza della forza propulsiva.Una cosa appare, però, chiara nel messaggio del movimento emerso a fine 2013: che si tratta dell’espressione drammatica della separazione tra chi sta in alto e chi sta in basso nella scala sociale, e del disagio della parte bassa, peraltro numericamente imponente: 4,5 milioni di disoccupati, 6 milioni di precari, 4,8 milioni di poveri assoluti. Del resto, abbiamo ancora negli occhi, ancora più evidente nei giorni di festa che abbiamo appena trascorso, il divario tra chi soffre economicamente e moralmente e chi non mostra segni di malessere alcuno. È anche necessario saper valutare i rischi dell’attuale stallo sociale e etico. Senza indulgere alle facili strumentalizzazioni di chi tende ad attribuire agli ultimi governanti di turno ogni colpa, bisogna decidersi a fare i conti con una realtà: da almeno 20 anni a questa parte in Italia, per dirla con le parole de rapporto 2013 del Censis, «la coazione alla stabilità e la paura del conflitto sono incubatori di disturbi esistenziali e di sistema». Non abbiamo cioè avuto la forza, in questi lunghi e importanti anni – nei quali siamo entrati nell’Eurozona e abbiamo assistito alla più intensa e straordinaria trasformazione dei modi di vita, della comunicazione e dei rapporti con il mondo esterno a noi – di liberare le energie vitali e di guardare al futuro con occhi rinnovati, come è necessario fare in periodi di transizione. È quel «mare troppo calmo, foriero di malanni» di cui parla ancora il Censis.Ora bisogna rimboccarsi le maniche con grande lena, per cominciare a rimuovere nei luoghi di vita come in quelli del lavoro tutti gli ostacoli – i privilegi, gli attaccamenti al passato, le prevaricazioni – che impediscono la valorizzazione delle forze vitali (donne, giovani, nuovi italiani …), lo scambio tra parti sociali, l’innovazione nei modi dello stare insieme, della partecipazione, del confronto, delle decisioni. Quella connettività invocata dal Censis e che rischia di non decollare, rendendoci sempre più «sciapi e malcontenti» di fronte alla personalizzazione del potere e al peso di crescente di burocrazie rigide e inconcludenti.