«Vede, signora, è che ormai non ci si può fidare di nessuno». Milano, una mattina di neve forte, un commissariato di quartiere. Raccontare a un agente che un signore, mentre salivo in auto, mi ha avvertita che avevo perso delle monete. Un attimo, mi volto, la borsa non c’è più. Il poliziotto è gentile, illustra tutti i modi in voga per derubare i passanti, consiglia di bloccare sempre la portiera dell’auto dall’interno, di stare attenti a chi chiede una indicazione. E poi, quella frase amara: «Qui, ormai, non ci si può più fidare di nessuno», che mi ritorna in mente come un refrain in una giornata da pellegrina per uffici pubblici, per richiedere tutte le carte perdute. Mi erano rimasti solo il cellulare e le chiavi di casa, e lo sbalordimento un po’ allocco di chi, nato e cresciuto a Milano, si sentiva sicuro nella sua giungla domestica. E adesso? mi chiedo smarrita davanti a questa privata Caporetto. Di corsa a casa, a recuperare cento euro e gli stivaloni di gomma. Con il passaporto stretto fra le mani, unico documento rimasto ad attestare che esisto, marcio sotto la neve. Gli stivaloni neri che affondano nel bianco e il mio passo rabbioso danno alla circostanza un’aura epica. Polizia di Stato. Stanze spoglie, stranieri in coda. All’ufficio denunce gli agenti sono ragazzi del Sud, pazienti, solidali, direi. Con calma trascrivono il mio caotico inventario: carta d’identità, patente, bancomat, carta di credito, tessere di tutti i tipi e i colori. Ah, e degli assegni, aggiungo affannata. Ah, e la carta di credito del supermercato, e anche la tessera sanitaria, aggiungo ancora. «Nient’altro?», chiede sorridendo l’agente, come un confessore dopo una lunga fila di peccati. Mi guardo attorno: vecchie scrivanie, computer un po’ lenti, ma questi ragazzi qui al loro posto, e umani, per poche centinaia di euro al mese. Davvero non ci si può più fidare di nessuno, come dice uno di loro? Però voi qui, in una mattina di neve, mentre le Volanti rientrano infangate; voi che chiamate anche la Motorizzazione per sapere se la patente è duplicabile subito, per darmi almeno un foglio provvisorio senza fare un’altra coda. E la banca, a cui spiego che non ho la benché minima idea dei numeri di serie delle carte e degli assegni rubati? Una sconosciuta impiegata: tranquilla, signora, la aiutiamo noi (uscire poi, brandendo un bancomat fresco fresco, il primo recuperato). Fuori, nevica che Dio la manda, ma Milano, se pure rallentata, procede come un esercito cocciuto. Ora, in Comune, piazzale Accursio, con le foto tessera. Sono le tre e venti, dieci minuti alla chiusura. Allo sportello allungo la denuncia bagnata di neve e il passaporto superstite. L’impiegata guarda le foto – spettrali, ammetto, scattate come sono in una giornata di neve e di guai – e dice che i capelli nascondono troppo il viso. Non rispondo niente, ma dai miei occhi parte uno sguardo supplice: la prego, non mi mandi via. L’impiegata china la testa. Incolla, digita, compila. La osservo; somiglia un po’ alla signora della banca, non nei tratti ma nei modi - pallida, efficiente, silenziosa. Cinque minuti, carta d’identità nuova di zecca. Distrattamente mentre esco mi cade lo sguardo su un piccolo crocefisso appeso nella guardiola dove le addette danno informazioni a due straniere. Con calma, anche se l’orario è scaduto; sforzandosi di parlare adagio, per farsi capire. Anche questa, penso, è l’Italia. Quel carrozzone che sui giornali pare sempre sul punto di affondare, quella nave incagliata, quel divario stratosferico di spread nel fuoco delle Borse, nella sua anonima quotidianità è invece anche questo. Facce umane, mani efficienti, pc accesi e operanti, mentre fuori la neve blandisce di restarsene a dormire. Facce che la sera aspetteranno un tram che arriverà carico, i tergicristalli battenti davanti a un’altra faccia stanca di tranviere. Non ci si può più fidare di nessuno? Di tanti invece, agente: come lei, come milioni. (Chissà perché, fra noi, quasi non ci vediamo, non ci riconosciamo. Ma ci siamo).