Opinioni

Il conflitto israelo-palestinese. Ciò che non cambia e deve cambiare

Vittorio E. Parsi sabato 20 agosto 2011
Proprio nel giorno in cui le leadership occidentali annunciavano sanzioni più concrete nei confronti del regime di Assad e chiedevano per la prima volta in maniera altisonante ed esplicita le sue dimissioni, una serie di attentati terroristici e di attacchi missilistici colpiva il territorio israeliano. A ricordare drammaticamente che mentre tutta la regione sta conoscendo un’ondata di cambiamenti drammatici, forse epocali, l’unica cosa che sembra non conoscere alcuna evoluzione è il conflitto israelo–palestinese. Il messaggio non poteva essere più chiaro di così: nessuna pace e neppure nessun ordine minimamente stabile potrà essere possibile fino a quando non verranno concretamente riconosciuti i diritti di un popolo da oltre 60 anni è privato della sua patria.Secondo quanto asseriscono le fonti dell’intelligence israeliana gli attacchi missilistici sarebbero arrivati dalla striscia di Gaza e una parte almeno dei fedayin sarebbe penetrata attraverso il confine egiziano. Sulla base di questi presupposti, Israele ha scatenato una massiccia rappresaglia, che avrebbe forse portato all’eliminazione di qualcuno degli organizzatori dell’offensiva palestinese e di sicuro ammazzato una dozzina di civili (tra cui almeno tre bambini).Da questo punto di vista, tutto secondo il solito disperante, macabro copione: occhio per occhio, come se servisse a qualcosa. Di nuovo, rispetto al passato, c’è però il fatto che gli israeliani hanno anche eliminato tre poliziotti egiziani, facendo un grosso regalo a chiunque stia cercando di saldare la rabbia araba contro il nemico interno (i vari dittatori di cui la regione abbonda) con la rabbia contro il nemico esterno (Israele). È possibile che nelle condizioni di fragilità in cui versa in questo momento l’Egitto, il Sinai sia più facilmente penetrabile da gruppi terroristici o di miliziani palestinesi. Ma appare l’ennesima scelta incomprensibile, quella israeliana di sparare nel mucchio. Nonostante tutti i timori per le future evoluzioni, l’Egitto resta uno dei due soli Paesi arabi (insieme alla Giordania) ad aver stipulato un trattato di pace con Israele, cosa che lo ha condotto a un pluridecennale ostracismo da parte dell’intero mondo arabo e per cui ha pagato un prezzo molto alto.Se in tutti questi anni l’Egitto avesse potuto esibire qualche concessione da parte israeliana nei confronti dei diritti del popolo palestinese, probabilmente si sarebbe trovato ad avere qualche argomento in più da utilizzare contro chi accusava Sadat e Mubarak di «tradimento della causa araba». Ma com’è evidente questo non è mai successo. Il processo di pace è ormai morto, gli accordi di Oslo sono stati totalmente disattesi e persino in questi mesi di intensi rivolgimenti in tutta la regione, la leadership israeliana è apparsa completamente incapace di formulare qualche iniziativa che potesse allontanare lo spettro di una saldatura tra l’umiliazione domestica e quella internazionale dei popoli arabi. Quello su cui tutti si interrogano è se l’Egitto che prima o poi emergerà dal processo post–rivoluzionario sarà in grado di mantenere un atteggiamento non apertamente ostile allo Stato ebraico o se invece tornerà a scegliere la via dell’inimicizia. Ed è difficile credere che quanto sta accadendo in queste ore non sia un viatico per la seconda strada. Un’ultima notazione val la pena di fare. Per le opinioni pubbliche arabe, il fatto che i governi che condannano le stragi di civili arabi fatte da Assad e quelle di civili (e militari) israeliani fatte dai palestinesi, girino la testa dall’altra parte mentre Israele fa strage di civili (e poliziotti) arabi con la sua rappresaglia, risulta inaccettabile.