Immagini d’Ucraina. Vita oltre l’odio. Ciò che solo basta alla pace
Due sono le immagini che porto via dall'Ucraina in guerra. La prima è un’immagine di donna: Galina, la cui figura minuta emerge all'improvviso dal buio di una cantina alla periferia di Kharkiv. È l’unica rimasta all’alba, dopo l’ennesima notte di fuoco d’artiglieria. Viene incontro ai volontari, ma non per prendere il pacco di cibo. Vuole dire qualcosa di importante, almeno per lei. «Fermate, fermate la guerra, salvate le donne e i bambini», ripete. Anche solo questo basta per far pace.
La seconda immagine è il quadro vivo di una domenica pomeriggio di tarda primavera, nella centralissima piazza San Michele di Kiev. Ai piedi di una delle chiese-simbolo della capitale, sono stati disposti carri armati bruciati e proiettili d’artiglieria, il bottino requisito agli invasori. La gran parte sono poco più che lamiere ritorte. Una folla di famiglie, coppie, gruppi di adolescenti si accalca intorno. I bimbi più piccoli cercano di salire su quel che resta dei tank. I genitori li aiutano e scattano foto ricordo. Fidanzati si fanno selfie sullo sfondo dei lanciagranate. O su quello dell’uniforme sforacchiata di un soldato russo. I buchi sono stati fatti da una raffica di proiettili. E sotto la stoffa c’era carne d’uomo.
Nel mezzo di queste due immagini ci sono settimane di incontri, chilometri percorsi in treno, auto, bus, per cercare di raccontare dove e come questo conflitto stritola le vite di donne e uomini d’ogni età e condizione sociale. Accanendosi, però, con particolare ferocia sui più fragili. Difficile non tornare più confusi e con meno risposte di quando si era partiti. Difficile dire che cosa sia giusto fare per far uscire il Paese e il mondo da questo labirinto di distruzione e di morte. Eppure resta addosso una pervasiva sensazione di spreco. Spreco di vite, di energie, di bellezza, di entusiasmo, di passione. Spreco anche, dal punto di vista mediatico, dell’opportunità di costruire una narrazione non monocromatica, polarizzata, semplificante. Una narrazione che non sia ripetizione di monologhi contrapposti e reciprocamente incomunicabili o tentativo di costringere ogni sguardo e ogni confronto dentro questo schema. Chi delle parole vive, almeno per professione, sa che queste possono essere proiettili scagliati gli uni contro gli altri o spiragli da cui provare a guardare, a vedere e a vedersi. All’Ucraina occorrono più che mai queste ultime parole. Abbiamo ascoltato, da analisti ed esperti, a Kiev e altrove, discorsi ragionevoli sul perché lo scontro in atto rappresenti l’archetipo della lotta tra libertà e autocrazia. Potrebbero essere convincenti, forse.
Se non ricordassero maledettamente gli argomenti impiegati, post 11 Settembre 2001, per giustificare la legittimità della "guerra al terrore". Questo nuovo "scontro di civiltà", proprio come il precedente, avrebbe potuto essere evitato se "uomini forti" e spietati non venissero sistematicamente foraggiati come male minore. Nelle macerie di Irpin e nelle atrocità di Bucha sono incisi e si leggono in controluce gli orrori di Aleppo e Grozny. Allora, però, la terribile determinazione del nuovo zar del Cremlino era la panacea contro il jihadismo, proprio come, qualche decennio prima, i taleban e i loro fanatici capi erano stati mobilitati come argine allo strapotere sovietico. Nel frattempo, gli studenti coranici – diventati il "nemico numero uno" prima di cedere il posto al Daesh – sono sopravvissuti a vent’anni di conflitto e sono tornati a insignorirsi di Kabul. E Vladimir Putin ha lanciato nel Caucaso, in Siria, in Africa e ora contro gli ucraini la sua grande Armata, fatta di generali cinici e di ventenni privi di alternative. Ai generali senza cuore e senz’anima c’è poco da dire, ai ventenni russi si può e si deve augurare che la convinzione delle proprie ragioni – convinzione loro e nostra – non renda mai sordi ai brandelli di altre ragioni.
La sofferenza ingiusta della guerra non deve continuare a diventare coreografia macabra. E anche sui i tour organizzati per intervistare le vittime di crimini efferati commessi dagli aggressori bisogna far calare un velo di silenzio. La sacrosanta e naturale indignazione non va usata nella fucina propagandistica di nuovi mostri.
Questa è la speranza per un popolo bello e fiero, a volte duro, sempre coraggioso e vitale. Gli ucraini possono farcela. Magari partendo proprio dall’Est, dove la linea di battaglia passa sotto la pelle stessa di persone per cui Russia e Ucraina non sono due Paesi, ma parti distinte della medesima identità. Questo genera, è vero, un odio ancora più profondo. Ma è odio che contiene amore tradito. E l’amore è il contrario di estraneità. Bisogna sognare e preparare per gli ucraini lacerati dentro e fuori, una riappropriazione integrale delle loro molteplici e sfumate identità, e della loro bella terra. Sarà questa la più bruciante sconfitta per Vladimir Putin.