Conosciamo appena il volto di Meriam, giovane madre cristiana ortodossa in attesa di un figlio e dell’impiccagione. L’ha condannata un giudice sudanese, e il capo di imputazione è «apostasia dell’islam».Conosciamo appena anche il volto di Daniel, il suo sposo e anche lui cristiano: sono insieme in una foto sbiadita. Un marito che non può più essere tale, che anzi non lo è mai stato, perché un giudice che applica la
sharia ha deciso che sua moglie è "islamica" per nascita e dunque manifestamente "adultera" (in quanto madre e futura madre, e dunque meritevole prima di essere messa a morte di cento colpi di frusta). Adultera perché un’islamica non può essere sposa di un cristiano. Islamica, anche se battezzata, perché l’uomo che l’ha generata era musulmano.Non conosciamo, e forse neanche la figlia conosce, il volto di quest’altra persona. Assente e incombente. Il padre che Meriam non ha mai avuto, perché l’abbandonò piccina, abbandonando la madre, donna coraggiosa e forte che l’ha educata nella sua stessa fede cristiana ortodossa e l’ha accompagnata sino alla laurea in medicina. E non conosciamo neppure il volto del suo primo bambino di 20 mesi, chiuso in galera con lei.Sappiamo poco di Meriam, eppure abbastanza. Sappiamo che ha 27 anni e una condanna a morte che poteva evitare riunciando a Gesù Cristo. Sappiamo che aveva tre giorni per farlo, per abiurare, e che non l’ha fatto: non ha aspettato neanche un momento per dire "no", lei non avrebbe mai negato la sua fede e la sua vita. E così è la vita che le vogliono togliere.Ma Meriam deve vivere. Lo chiedono con straziante dignità i suoi cari. Lo dice la piccola folla che a Khartum non ha avuto timore di invocare per strada, davanti al tribunale, vera giustizia, rispetto e piena libertà per questa donna e madre cristiana e per la sua famiglia. Lo reclama la piccola grande ondata di dolore e di indignazione che ha cominciato a percorrere almeno un po’ di mondo (e, da subito, attraverso il nostro sito internet e i social network, anche la voce dei lettori di questo giornale ha preso a farsi sentire). Lo scandisce a gran voce Amnesty International, dando il "la" al coro degli ambasciatori a Khartum di grandi Paesi come gli Stati Uniti d’America, il Canada, la Gran Bretagna, l’Olanda – e come vorremmo (in assenza di notizie in tal senso lo diciamo con amarezza e speranza) che ci fosse già stato un passo analogo, magari discreto ma deciso, anche del rappresentante del Governo italiano in Sudan...Meriam deve vivere. Perché la sua vita è preziosa, esemplarmente preziosa. Perché la sua storia è la storia di milioni e milioni di persone, e sempre più lo sarà su una Terra nella quale le distanze si annullano, le differenze si mescolano e cresce la fame e la sete di essenziali libertà e di autentici fondamentali diritti.Meriam deve vivere. Perché se anche lei – figlia e madre, cittadina, semplicemente e convintamente cristiana – fosse, come troppe altre persone in troppe nazioni, punita e addirittura uccisa nel nome di una legge che pretende di negare tutto ciò che una giovane donna vive e crede, questo mondo sarebbe terribilmente più ingiusto. E ognuno di noi, ognuno dei nostri figli e delle nostre figlie, sarebbe più fragile e meno libero. Questo sappiamo. Sappiamo che Meriam deve poter essere se stessa. Meriam deve vivere.