Opinioni

Il forte magistero ordinario del Papa. Ciò che fa viva la Chiesa

Stefania Falasca mercoledì 18 luglio 2018

Ci sono parole papali che possono risultare urticanti. Come queste, pronunciate nell’Angelus di domenica scorsa, che mettono il dito su un aspetto non certo secondario, la missione della Chiesa e le sue modalità concrete: «Non manager onnipotenti, non funzionari inamovibili, non divi in tournée», non agiscono così gli autentici «messaggeri del Regno di Dio» che altro non possono avere se non un «bastone e dei sandali», «né pane, né sacca, né denaro nella cintura» perché «il Maestro li vuole liberi e leggeri, senza appoggi e senza favori». Perché questo è secondo il Vangelo lo stile dell’autentica vocazione missionaria, caratterizzata dalla povertà dei mezzi.

Papa Francesco ha poi anche descritto i connotati elementari della dinamica propria e imparagonabile dell’annuncio cristiano e del dinamismo missionario: cioè che la missione di annunciare il Vangelo, affidata agli apostoli da Cristo, è in realtà il semplice «riproporsi della presenza e dell’opera di Gesù nella loro azione missionaria». Il che vuol dire che il metodo è sempre lo stesso: guardare al Vangelo e a quello che Cristo ha detto e fatto nel Vangelo e sottolineare ancora che la Chiesa non è padrona della missione. Non è la prima volta che, dall’Evangelii gaudium in qua, il Papa ripete quale sia la sorgente della natura missionaria. Perché si tratta di un punto vitale. «Il primo modo di morire è quello di dare per scontate le sorgenti, cioè Chi muove la missione» ha infatti ribadito più di una volta. Se queste sorgenti vengono messe in ombra, di fatto è Gesù Cristo stesso a essere tagliato fuori dall’opera missionaria, che è opera Sua, perché solo Lui può toccare i cuori delle persone. E si alimenta invece la gòra di una missionarietà "funzionalista", quella che viene da una Chiesa auto-sufficiente, che si fonda su se stessa, sui suoi mezzi, i suoi piani, le sue strategie e che al mondo racconta se stessa, le sue imprese, finendo per assomigliare alle pur importanti organizzazioni di aiuto umanitario, per le quali può bastare un brand originale per distinguersi dalle altre nell’immenso mondo del soccorso della sofferenza e nel fiorire di companies che fanno pubblicità a se stesse.

In più occasioni in questi ultimi mesi Francesco è allora tornato a dire con chiarezza nelle sue omelie a Santa Marta alcuni aspetti della evangelizzazione. Evangelizzare non significa mettere in atto «piani pastorali ben fatti, perfetti» incapaci però di far arrivare un annuncio: Gesù non manda gente con «un atteggiamento imprenditoriale». «L’evangelizzazione non è una testardaggine umana», «è lo Spirito Santo» il «vero protagonista» della missione che chiama ogni cristiano. Infine, quanto «è brutto» vedere evangelizzatori che, a motivo del loro impegno, pensano di «aver fatto carriera», nella Chiesa o nella società, e hanno «la presunzione di voler essere serviti»…

Con le Pontificie Opere Missionarie, il Papa è stato poi anche più esplicito: «Noi non abbiamo un prodotto da vendere – non c’entra qui il proselitismo, non abbiamo un prodotto da vendere –, ma una vita da comunicare: Dio, la sua vita divina, il suo amore misericordioso, la sua santità! Ed è lo Spirito Santo che ci invia, ci accompagna, ci ispira: è Lui l’autore della missione. È Lui che porta avanti la Chiesa, non noi. Lascio a Lui – possiamo domandarci – lascio a Lui di essere il protagonista? O voglio addomesticarlo, ingabbiarlo, nelle tante strutture mondane ma con la benedizione di Dio? Lascio che sia Lui o lo ingabbio?».
Tutto questo a riprova di qual è per il Papa il pericolo di una vera confusione nella Chiesa. E a riprova del fatto che gli accenni riformatori più fecondi e spiazzanti, Francesco li semina nelle pieghe della sua predicazione ordinaria, che è quella delle omelie delle Messe a Santa Marta, degli Angelus domenicali, delle udienze.

Accenni tuttavia spesso ignorati non solo dai grandi circuiti mediatici, occupati a incasellare i suoi gesti nelle agende liberal o conservative, ma anche da quegli apparati ecclesiali avvezzi a trasformare i suggerimenti papali in nuovi conformismi e a coltivare forme di protagonismo ecclesiale.Ma se Dio fa crescere il Regno attraverso chi non conta, perché nessuno possa vantarsi dicendo che la crescita del Regno è opera sua, tutto questo non può rimanere solo come un armamentario di spiritualismi da mettere in apertura a qualche conferenza. Occorre che il dinamismo di grazia con cui cresce il Regno di Dio giudichi anche i criteri concreti e operativi di tutte le attività pratiche legate alla missione. «Altrimenti una Chiesa che si riduca all’efficientismo degli apparati è già morta, anche se le strutture e i programmi a favore dei chierici e dei laici dovessero durare ancora per secoli».