Il golpe «subìto» obbliga a scegliere. Cina al bivio di Myanmar
Giorni delicati per la politica estera cinese, all’indomani del primo vertice, sia pure online, del Quad, la cosiddetta 'Nato Orientale' che venerdì scorso ha visto per la prima volta riuniti i leader degli Usa, del Giappone, dell’Australia e dell’India (ma non della Corea del Sud...) impegnarsi formalmente a 'contenere' il crescente espansionismo cinese e alla vigilia del primo incontro ufficiale con la nuova amministrazione Usa, in programma oggi in Alaska, che vedrà i ministri degli Esteri e della Difesa di Washington e Pechino impegnati a trovare di nuovo un linguaggio comune.
Ma quello che più preoccupa la Cina, in questi giorni, è quando sta succedendo in Birmania: mantenere la tradizionale politica di non interferenza e appoggiare, di fatto, l’esercito che spara sulla popolazione civile e rischiare miliardi di investimenti o allinearsi, per una volta, con (quasi) tutto il resto del mondo, chiedendo il ritorno della democrazia e... salvare miliardi di investimenti?
Chi conosce bene la situazione geopolitica dell’area sa benissimo che Pechino, contrariamente a quanto si legge in questi giorni sulla maggior parte dei media, il golpe birmano l’ha subìto, più che ispirato o addirittura diretto.
Sono anni, almeno dal 2015, quando Pechino la accolse con tutti gli onori mentre era ancora formalmente una leader dell’opposizione, che la Cina aveva puntato su Aung San Suu Kyi e sul nuovo corso 'democratico' birmano. Nel gennaio 2020, in occasione della sua 'storica' visita (la prima di un capo di stato cinese) il presidente Xi Jinping era stato accolto trionfalmente dalla 'Signora' e dai vertici militari (gli stessi che oggi sparano sui manifestanti) e aveva definito pauk phaw – 'fratelli gemelli' i due Paesi. Un’espressione mai usata, in precedenza, per definire i rapporti con altri Stati. Tutto questo in cambio dell’approvazione definitiva di vari progetti infrastrutturali cui la Cina puntava da anni, parte dell’iniziativa
Belt& Road (la nuova 'via della seta') e che regalerà finalmente a Pechino un facile accesso all’Oceano Indiano. Progetti – compreso quello di un oleodotto che attraversa lo stato del Rakhine e che è stato una delle cause scatenanti della violenta repressione contro il popolo rohingya – che valgono miliardi di dollari e che hanno fatto della Cina il primo partner commerciale della Birmania oltre che il maggior investitore straniero.
Un rapporto privilegiato e sempre più saldo, dunque, utile a entrambi i Paesi, soprattutto dopo il raffreddamento dei rapporti con l’Occidente e la caduta di immagine di Aung San Suu Kyi, che per la vicenda dei rohingya ha dovuto difendersi dall’accusa di genocidio davanti alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja. Lo scorso 19 gennaio, pochi giorni prima del golpe (1 febbraio) il ministro degli Esteri cinese Wang Yi veniva di nuovo accolto con tutti gli onori dalla stessa 'Signora' e da U Win Myint, il presidente rimosso e attualmente agli arresti domiciliari.
Difficile pensare che Pechino invii il suo ministro degli Esteri per dare l’estrema unzione a un governo che aveva deciso di far cadere. Qualcosa evidentemente è successo, qualcosa che ha colto di sorpresa Pechino e che ora impone una scelta di campo inedita per la diplomazia cinese. Qualche segnale è già arrivato. Pur non avendo – assieme a Russia, Vietnam e India – ancora condannato formalmente il golpe, Pechino lo scorso 11 marzo ha sottoscritto il documento in cui le Nazioni Unite condannano l’uso della violenza contro i manifestanti. In passato la Cina si era sempre rifiutata di firmare un documento analogo contro la repressione dei rohingya, ricambiata dal reiterato silenzio di Aung San Suu Kyi e del suo governo sulla vicenda degli uighuri nello Xinjiang, anche loro minoranza di religione musulmana.
Nel frattempo alcuni dirigenti delle numerose aziende cinesi presenti in Birmania, che fino a qualche giorno fa erano rimasti defilati, rifiutandosi di firmare i vari appelli delle Camere di Commercio presenti nel Paese, hanno chiesto protezione al governo locale e a Pechino di intervenire direttamente per evitare che la situazione precipiti. In queste ultime ore la rabbia dei manifestanti si è rivolta contro la popolazione di origine cinese e contro le aziende di Pechino, una deriva che la Cina non può permettere perché metterebbe a rischio davvero il futuro degli investimenti in corso. Nei prossimi giorni, forse ore, capiremo se e come Pechino riuscirà a svolgere un ruolo positivo per fermare questa ennesima tragedia che ha colpito il povero popolo birmano.