Opinioni

Obiettivo Fame zero. Cibo e disuguaglianze: decisiva la leva di una nuova coscienza

Leonardo Becchetti venerdì 6 agosto 2021

Il pre-vertice di Roma sul cibo, in vista di quello che l’Onu dovrà realizzare a New York, si è concluso con le consuete dichiarazioni d’intenti. Esse sottolineano come ancora oggi esistano più di 810 milioni di persone nel mondo che soffrono la fame, una quota della popolazione mondiale che è via via diminuita dalla rivoluzione industriale a oggi (era del 90% all’inizio dell’800), ma che non ci consente ancora di dire che il problema è risolto. Non si tratta, come sappiamo, di un problema di insufficienza di produzione agricola o di scarsità di cibo. Il paradosso è, infatti, che vengono anche sprecate circa 1,4 miliardi di tonnellate di generi alimentari che per essere prodotte sono responsabili di circa un decimo dei gas serra che immettiamo nell’atmosfera (4,8 miliardi di tonnellate).

È del tutto evidente dunque che mentre l’innovazione tecnologica (sono decenni che le organizzazioni internazionali la esaltano con il concetto di «rivoluzione verde») è importante perché aumenta la produttività agricola, ma non basta di per sé a risolvere il problema. La 'trappola della povertà' è determinata, come sappiamo, da una combinazione di fattori tra i quali, non ultimi, proprio i rapporti di forza all’interno delle filiere dei prodotti agricoli dove la quota di valore che va ai produttori di base è minima e vicina ai livelli di sussistenza.

Esiste poi una categoria ancora più precaria, quella degli stagionali a contratto, che vive spesso in condizioni di vera e propria schiavitù. Nell’agricoltura mondiale non esiste più Nord e Sud del mondo perché le stesse dinamiche le osserviamo nel Nord-Ovest e nel Nord-Est italiano come a Latina, nel Foggiano come nel continente africano. L’agricoltura, insomma, oggi molto spesso non è la risposta al problema del cibo e della povertà, ne è la causa. Il pre-vertice ha anche preso consapevolezza del fatto che il problema della fame si intreccia inestricabilmente con quello dell’emergenza climatica.

Il riscaldamento globale ha aumentato gli eventi estremi che distruggono produzione, mettono sul lastrico i produttori più fragili e meno capaci di adattarsi e accrescono la volatilità delle materie prime agricole. Di fronte all’aumento degli choc determinati da eventi estremi è essenziale, inoltre, l’accesso a forme di assicurazione per i produttori più fragili. L’emergenza climatica rende essenziale l’adattamento, ovvero quell’innovazione in agricoltura che riduce i rischi e aumenta la produzione pur in presenza di condizioni meteorologiche mutate. Il problema ancora una volta è quello dell’accesso alle tecnologie e della distribuzione dei loro benefici alla fascia più vasta possibile di popolazione.

I vertici internazionali, per non essere velleitarie manifestazioni di principio, devono entrare di più nelle risposte di policy che in gran parte già esistono. Una prima è quella della trasparenza e informazione sulle caratteristiche dei prodotti. Non basta conoscere ingredienti e caratteristiche organolettiche. È fondamentale oggi avere dati su impronta di carbonio e impronta d’acqua e sulla quota di valore prodotto che va agli attori più fragili della filiera.

Un’informazione più accurata sulla responsabilità sociale e ambientale del cibo stimolerebbe sensibilmente il 'voto col portafoglio' dei cittadini e dovrebbe necessariamente stimolare comportamenti conseguenti nelle amministrazioni pubbliche che, da sole, rappresentano quasi il 20% dei consumi attraverso le scelte negli appalti. Dovrebbe essere perciò un dovere per gli Stati e le amministrazioni locali giocare sia un ruolo di peso nel vertice Onu, senza farsi 'commissariare' e quasi esautorare da grandi poteri economici multinazionali, ma anche di impegnarsi ad acquistare soltanto prodotti 'caporalato free' per le mense scolastiche e tutte le proprie strutture. Quest’ultima è la via per capovolgere finalmente la logica degli appalti dal prezzo minimo, che spesso incita allo sfruttamento del lavoro e rende terribile l’impatto sociale e ambientale delle attività. Innovazioni di processo e di prodotto sono fondamentali per aumentare la concorrenza tra gli attori e redistribuire il valore lungo la filiera.

L’esempio storico del commercio equo solidale ha visto importatori europei proporre una distribuzione di valore che favorisce l’empowerment e lo sviluppo dei produttori di materia prima nei Paesi del Sud del mondo. Quest’approccio, oggi, ha contagiato anche alcuni grandi produttori globali che si approvvigionano seguendo gli stessi princìpi, magari in partnership con gli stessi importatori del commercio equosolidale.

È interessante notare che, anche guardando al problema in ottica di modelli economici, siamo lontanissimi dall’ideale di 'concorrenza perfetta' che all’università raccontiamo agli studenti di primo anno e orientati, invece, verso un modello di 'perfetta informazione' sulle caratteristiche di prodotti e di competizione tra produttori con medesimo potere contrattuale. La realtà che ancora osserviamo è quella di asimmetrie informative e di grande concentrazione di potere di mercato che rendono i bassi prezzi non un elemento di vantaggio, ma un segnale (per chi lo sa cogliere) di scarsa qualità e di scarsa sostenibilità ambientale e sociale.

Ecco perché la direzione della trasparenza informativa e dell’aumento del potere contrattuale degli attori più deboli è essenziale per tutelare biodiversità e varietà di produzioni locali. Abbiamo ormai tutti gli ingredienti per rendere la fame una questione del passato (make hunger history, direbbero gli anglosassoni). Quello di cui c’è bisogno è più innovazione sociale e più coraggio politico a livello nazionale e internazionale per risolvere finalmente il problema.