Opinioni

RISCHIA DI ESSERE SOPPIANTATO DAL KEBAB. Cibo di strada, identità da rivalorizzare

Paolo Massobrio venerdì 25 ottobre 2013
Sulla mia scrivania, fresco di stampa, m’è appena arrivato un libro che in qualche modo segna i tempi. Si intitola «Street Food all’Italiana – Il cibo di strada da leccarsi le dita». Per i tipi di Giunti lo hanno scritto Clara e Gigi Padovani e dà piacere sfogliarlo non solo per le ricette, ma anche per le fotografie. Già: foto molto datate e foto dell’oggi, che si rincorrono fra il bianco/nero e il colore, quasi che in mezzo ci sia stato un vuoto temporale, un colpo di spugna della ditta "Benessere". E ricordo questa sensazione di vuoto la prima volta che fui invitato a Napoli, circa vent’anni fa: dopo aver messo i bagagli in albergo andai in giro per le strade a cercare un trancio di pizza. Ma non la trovai, se non nei locali dove era gestito il coperto e il servizio del bere. Del resto anche nella mia città, Alessandria, eran decenni che non si trovava più la "bellecalda" (la farinata), mentre le olive ascolane sarebbero diventate un vezzo dei catering, quasi un prodotto inflazionato del rito dell’aperitivo. Solo Firenze e Palermo, ai miei occhi, hanno resistito: la prima coi chioschi di trippa e di lampredotto, la seconda con il pani meuza (la milza).Un modello sono invece rimasti i bacàri di Venezia, serviti con l’ombra di vino, come le frasche in Friuli. Insomma, come nel libro giustamente racconta Gualtiero Marchesi, il cibo da strada è una sorta di racconto dell’Italia, di quell’Italia povera ma bella, che metteva in piazza i suoi piatti identitari, prima di rifugiarsi nei locali à la page. Nel tempo il cibo di strada più diffuso è rimasto la caldarrosta, ma le amministrazioni comunali stanno pensando di allontanare i bracieri dai luoghi più belli, per questioni di decoro. E perché mai? Cosa sarebbe il centro di Milano, del resto, senza i panzerotti di Luini, che hanno trapassato generazioni o, ai tempi della mia infanzia, quell’odore acre del tartufo d’Alba che il signor Coprani evocava proprio nel porticato della galleria? Oggi il cibo da strada, che comprende anche la focaccia (mitica è quella di Recco, che ha più di 130 anni di storia, tanti quanti il locale di Manuelina) e la porchetta, sta tornando di moda, tanto che si organizzano manifestazioni ad esso dedicate, finanche col fritto di pesce al cartoccio. E poi si scrivono libri. Torna di moda nei mercati rionali dove era scomparso, mentre a Francoforte, per fare un esempio, il take away rappresenta un compendio fondamentale (würstel coi crauti per tutti) dell’offerta di frutta e verdura. Il cibo di strada insomma conviene, e quello italiano, senza che ce ne accorgiamo, rischia di essere sostituito dal kebab.Questa settimana a Milano si è chiusa una fiera dedicata al settore delle attrezzature alimentari, Host, e nella parte dedicata ai locali del futuro m’ha colpito osservare il grande interesse che riscuotevano le polenterie, con la mescita persino alla spina, di quello che è stato il piatto povero per eccellenza di intere generazioni. Che cosa ci dice tutto questo? Certamente che c’è un ritorno alle cose essenziali per una spesa più oculata, da parte di chi tuttavia non vuole accettare l’omologazione stanca di certi panini o brioche, tutti uguali e surgelati, in qualsiasi bar che si giri. Ben venga allora il cibo di strada: ben venga un volto della straordinaria creatività italiana in cucina che era rimasto sotto la cenere. Oggi è un fuoco, che francamente non spegnerei nelle piazze dei nostri centri storici. Sono la nostra storia, sono qualcosa di desiderabile.​​​​