Se tutte le previsioni del Rapporto Svimez sul Mezzogiorno saranno confermate, il biennio 2010-2011 sarà ricordato come quello della grande mutazione antropologica del Sud d’Italia. Da serbatoio demografico del Paese, secondo un trend ultradecennale, a deserto della natalità; da territorio giovane e popolato di giovani a regno indiscusso della popolazione anziana; da luogo in cui abbondano braccia e menti a vuoto pneumatico, come capita di sperimentare se ci si avventura nei centri dell’entroterra lucano e calabro. Dove si assiste a un processo di inesorabile ossificazione che richiama alla mente l’immagine, tanto fortunata quanto drammatica, della "polpa e l’osso" di Manlio Rossi-Doria.Solo per un dato il Sud si conferma quello di sempre, dal dopoguerra in poi: terra di emigrazione. Con caratteristiche diverse a seconda delle stagioni sociali ed economiche e delle mutate condizioni della popolazione giovanile meridionale. Ora mediamente più scolarizzata e con picchi impressionanti di fughe dei laureati. A conferma, se pure ce ne fosse bisogno, dell’incapacità del mercato del lavoro meridionale di assorbire quote consistenti di personale qualificato. Queste due drammatiche rilevazioni dello Svimez, plasticamente rappresentate con l’immagine dello "tsunami demografico" e con le cifre dell’emigrazione dal Sud (600mila unità in dieci anni), confermano l’analisi preoccupata del cardinale Angelo Bagnasco che ha voluto testimoniare «il senso di insicurezza diffuso nel corpo sociale, rafforzato da un attonito sbigottimento a livello culturale e morale». Tanto più avvertito al Sud, dove persiste un divario con il Nord che, nella sua operazione verità, il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, indica come «la principale incompiutezza dell’unificazione d’Italia».Parole forti ed esigenti quelle del Presidente e del Cardinale, a testimonianza che c’è ancora qualcuno, nel nostro Paese, che ha a cuore il bene di tutti e di ciascuno. Senza distinzioni di età, ma con un occhio rivolto ai giovani che appaiono oggi particolarmente deboli. Senza egoismi territoriali, perché è ben difficile immaginare un Paese che riprenda la via della crescita senza operare scelte inclusive nei confronti delle zone meno sviluppate. Senza timori nel proporre e nello stringere alleanze per arrestare il declino. Tutto il Sud, senza alcuna eccezione, con le sue cifre in negativo del Pil, è tecnicamente in recessione da un decennio. Il suo tasso medio annuo di decrescita dello 0,3% (rispetto al +3,5% del Nord) è un fallimento annunciato, oltre che la prova dell’inadeguatezza di intere classi dirigenti.Dinanzi a un quadro così raggelante si potrebbe scegliere la strada del "si salvi chi può", facendosi ammaliare dalle sirene secessioniste (al Nord) o catturare dai tentacoli dell’economia criminale (al Sud). A queste sirene e a questi tentacoli si può resistere solo con un rinnovato patto Nord-Sud, tornando a ricucire con pazienza la trama sociale del nostro Paese. E rinvigorendo le radici della speranza che si nutre di vita buona e di valori – di cui il Sud è ancora un solido custode – ma anche di politiche attive. Come un patto intergenerazionale per il Sud in cui si annulli la distanza fra i sacrifici dei genitori (attraverso l’allungamento dell’età pensionabile e il taglio di redditi e pensioni) e i benefici per i figli (nella forma, ad esempio, di un voucher immediatamente spendibile nel mercato del lavoro locale). Aiuti a chilometro zero tra padri e figli del Sud, perché Roma è troppo lontana da Palermo e Reggio Calabria.