Tunisia e migranti, la linea dell'Italia. Ciò che non si fa e neppur si dice
Partiamo dalla buona notizia. Dal vertice governativo di martedì sulla gestione degli ingressi di immigrati è uscita la decisione di contribuire ad aiutare la Tunisia in crisi, anche premendo perché si sblocchi un ingente prestito da parte del Fondo Monetario Internazionale. Un governo in evidente affanno sul “dossier sbarchi”, spesso enfatizzato in passato proprio dalle forze oggi di (ampia) maggioranza parlamentare, dopo aver tagliato i fondi alla cooperazione internazionale, sta scoprendo l’importanza della solidarietà verso la sponda Sud del Mediterraneo. Qui finisce la buona notizia e comincia il problema. Le motivazioni di tale scelta non sono ridare speranza alla popolazione di un Paese così prossimo al nostro e risollevare le sorti dell’unica democrazia sopravvissuta tra quelle uscite dalle primavere arabe, ma finanziare il despota Saied perché riprenda a svolgere con efficienza il compito di gendarme esterno delle frontiere europee.
Ancora una volta, per di più, si ricorre a stime disinvolte sugli arrivi previsti nel corso dell’anno, chiamando a puntellarle l’immancabile riferimento ai Servizi segreti: 300-400mila a seconda delle fonti.
Dieci giorni fa erano 685mila in arrivo dalla Libia, e per colpa del famigerato gruppo Wagner.
La seconda risposta alla presunta enorme emergenza è un altro cavallo di ritorno: puntare sulle espulsioni. A questo servirebbe aumentare il numero di Cpr, ovvero Centri di permanenza per il rimpatrio, e allungare il periodo di detenzione dagli attuali 90 a 120 giorni, o addirittura a 180, nelle intenzioni della Lega. I Cpr sono attualmente dieci, rappresentano un costo ingente e infliggono alle persone lì rinchiuse condizioni peggiori del carcere: mancano infatti dei servizi e dei progetti, come corsi di formazione e opportunità lavorative, che nelle strutture carcerarie “normali” servono (seppure non abbastanza) a rendere meno disumana la detenzione e a favorire la riabilitazione. Nei Cpr le persone sono soltanto “custodite”,
in attesa di essere espulse, e la crudeltà del trattamento serve probabilmente anche a piegarne la resistenza.
Ma i Cpr non solo dispongono di pochi posti, rispetto al numero teorico degli immigrati irregolari da espellere (le stime, anche in questo caso friabili, di solito si attestano sopra quota 500mila), ma sono anche inefficienti. Secondo il Dossier immigrazione, nel 2020, infatti, sono transitati dai Cpr 4.387 migranti teoricamente da espellere (ossia meno dell’1% della popolazione irregolare stimata): appena la metà (2.232, pari al 50,9% del totale), però, è stata effettivamente rimpatriata. Non è andata meglio nel 2021: 2.520 rimpatri effettuati a fronte di 5.147 transitati dai Cpr (49,0% del totale). Tra l’altro la Tunisia è già il principale Paese di destinazione, quello più collaborativo sul fronte dei rimpatri. È tutto da dimostrare, invece, il teorema secondo cui aumentando il tempo di detenzione crescerebbe la capacità di arrivare all’espulsione: già ai tempi di Salvini al Ministero dell’Interno il tempo di detenzione era stato portato a 180 giorni, ma l’efficienza del sistema era rimasta la solita. E anche raddoppiando il numero dei posti nei Cpr, si arriverà (forse) a trattenere il 2% delle persone in condizione irregolare.
La terza risposta, che prenderà forma probabilmente nel dibattito parlamentare sulla conversione in legge del decreto partorito dal Consiglio dei ministri di Cutro, riguarda altre restrizioni alla possibilità di ottenere asilo in Italia mediante la formula della protezione speciale: una formula, ha ricordato Magistratura democratica, che esiste con varie modalità in 20 Paesi Ue su 28.
Aumenteranno così le persone sbandate, quelle che vedranno interrompersi un processo d’integrazione ben avviato e quelle che non potranno regolarizzarsi nemmeno avendo legami familiari e affettivi.
Propaganda, dunque, sulla pelle dei più deboli, anziché soluzioni pragmatiche e percorribili. Un governo così pronto nell’annunciare dubbie politiche restrittive tace, invece, quando si tratta di offrire risposte sull’accoglienza di chi fugge da guerre e repressioni. Non parla più dei corridoi umanitari, annunciati dal ministro Piantedosi come risposta al naufragio di Cutro. Non parla di come migliorare il sistema di accoglienza, decimato e mortificato dai tagli ai finanziamenti. Non parla di come trasformare gli attuali richiedenti asilo o soggiornanti irregolari lavoratori capaci di rispondere alle domande delle imprese, secondo modelli già attuati in Spagna, Francia, Germania. Fare delle politiche dell’immigrazione un vessillo propagandistico non produce né soluzioni ai problemi, né sicurezza nelle nostre città. Soltanto applausi o “buuu” allo straniero da curve estremiste, nel sonno della ragione, ai danni della coesione sociale e dell’interesse stesso del sistema Italia.