Ciò che ci manca. Risposte per la povertà di futuro
È la mancanza di futuro la povertà più grande che attanaglia in questo momento l’Italia e che genera tanta rabbia e risentimento. I dati del Rapporto Censis 2017 su questo punto sono impietosi. La stragrande maggioranza degli italiani dichiara infatti di non vedere davanti a sé un futuro promettente. Il cittadino comune ha ormai abbandonato i miti dell’individualismo rampante degli anni ruggenti della finanziarizzazione e della globalizzazione. Non crede più alle promesse di un domani che non arriva mai. E, ben più realisticamente, cerca di fare i conti con i problemi concretissimi della propria vita quotidiana, con la netta sensazione di essere abbandonato dalle istituzioni e di doversela cavare da solo.
Le percezioni, si sa, non sono la realtà. E, dunque, si potrebbe contestare che tanto risentimento è in fondo ingiustificato. Che l’economia sta riprendendo, che occorre avere un po’ di pazienza e che col tempo i benefici arriveranno a tutti. Ma chi si attesta su questa lettura non capisce il tempo che viviamo. In primo luogo perché è tutto da dimostrare che la crescita economica prosegua negli anni. Ci sono mille variabili che possono portare nuova instabilità. In secondo luogo, perché l’incremento del Pil non si traduce automaticamente nella sua equa redistribuzione tra i diversi gruppi sociali. In terzo luogo, perché lo scontento e la rabbia sono concreti e attuali, mente gli eventuali benefici appartengono a un domani incerto. E poi i problemi delle persone non sono solamente di tipo economico: l’invecchiamento demografico ci rende una società più fragile e vulnerabile; le sacche di povertà e di disagio sono diventate così ampie da stravolgere la vita di tanti quartieri; la solitudine e la mancanza di senso sono tarli che divorano la vita di molti.
Che cosa ci insegna tutto questo? Che siamo ormai davvero in un altro tempo. La crisi globale, combinandosi con i ritardi accumulati negli anni dal Paese, ha scavato solchi profondi nella nostra società. Certo, non possiamo consegnarci a un pessimismo fatalista che diventa una profezia destinata ad autoavverarsi. Ma non possiamo nemmeno accontentarci di un ottimismo di maniera che non accetta di fare i conti con i problemi profondi delle nostre città e col dolore diffuso tra i nostri concittadini.
Ancora si stenta a capire che la domanda che sale dalla società è oggi quella di un nuovo legame sociale capace di spezzare quel profondo senso di abbandono da cui scaturisce il livore che, con sgomento, vediamo qua e là affiorare. Ciò che si chiede è qualcuno che si coinvolga davvero e si ponga come garante per tutti coloro che vogliono costruire (e sono ancora la maggioranza) invece che distruggere.
Aiutando un po’ per volta a sciogliere i nodi che strozzano la società italiana e creando le condizioni per un nuovo patto sociale, che sia prima di tutto tra le generazioni. Una metafora può aiutare a capire meglio di che cosa si sta parlando. Con la globalizzazione siamo entrati nel grande oceano planetario.
Per un primo periodo la navigazione può essere apparsa facile e attraente: in presenza di un’unica corrente che spingeva tutte le imbarcazioni al largo, l’unica richiesta era quella di approfittare di qualcuna delle crescenti e (teoricamente) illimitate possibilità che la nuova situazione portava con sé. Poi, nel 2008, è arrivata la tempesta e molte imbarcazioni sono naufragate, causando numerosi morti e feriti.
Oggi la tempesta è passata, ma siamo tutti in mezzo all’oceano, con un mare che è diventato difficile e minaccioso. Per navigare in questa nuova situazione occorre riconoscere di essere tutti sulla stessa barca, organizzare bene l’equipaggio, dotarsi degli strumenti necessari, liberarsi dei pesi inutili. Insomma, imparare a tenere il mare e darsi una rotta. L’Italia sta entrando in un anno elettorale. Non mancherà chi cercherà di sfruttare il malcontento diffuso.
La speranza è di vedere qualcuno che non abbia paura di parlare al Paese, facendogli capire che ci si può salvare solo insieme, ingaggiandosi in un percorso che richiede, sì, tempo e costanza, ma che è il solo modo per riaprire il futuro. Un percorso che deve mettere al centro il lavoro e le nuove generazioni. Non si tratta tanto di fare sacrifici per essere “più efficienti”. Si tratta invece di girare una pagina non particolarmente felice, e che è durata troppo a lungo. E cominciare a costruire, un po’ per volta, un nuovo modello di sviluppo. Centrato sulla sostenibilità (sociale, ambientale, umana) e sul contributo di tutti, ma proprio tutti. Ce la faremo?