Cristiani e sobrietà. Peccati di gola: per vivere le virtù ci vuole equilibrio
Claudio Ferlan
Per il terzo appuntamento del nuovo ciclo di catechesi dedicato a vizi e virtù, mercoledì 10 papa Francesco ha proposto una riflessione sul tema della gola e della sobrietà. Gesù ha promosso «un rapporto sereno nei confronti dell’alimentazione» – ha detto – che «dovrebbe essere riscoperto e valorizzato».
Al giorno d’oggi preoccupa la lettura sociale del vizio della gola – ha aggiunto – tradotto nel mancato rispetto delle risorse del pianeta, sfruttato senza ritegno da una cultura che guarda solo al consumo. Quale riscontro trova, nella storia, il parallelismo tra un peccato apparentemente riservato alla dimensione privata della tavola e la sua capacità di incidere sulla collettività? Il monaco Evagrio Pontico (345-399) nell’opera Gli otto spiriti malvagi pose la gola in apertura dell’elenco delle tentazioni demoniache, seguita dalla lascivia. Due secoli dopo, papa Gregorio Magno (540 circa- 604) compilò la lista dei sette vizi capitali, confermando per gola e lussuria le posizioni di testa.
La collocazione in cima all’elenco indicava un percorso consequenziale, per cui la gola costituiva un impulso ai vizi che la seguivano, e non v’è dubbio che la dissolutezza sessuale fosse tra quelli socialmente esecrabili. Digiuno e astinenza stabilivano una forma di rinuncia tanto individuale quanto pubblica, rappresentando due efficaci rimedi alla tentazione degli eccessi di tavola e alcova. Il troppo mangiare e bere rappresenta certo un pericolo per il benessere fisico.
A partire almeno dal XIII secolo abbiamo testimonianza dell’insistenza delle autorità ecclesiastiche, in sintonia con il sapere medico, nel denunciare i rischi della gola per il corpo. Per esempio, nelle istruzioni per i confessori si suggeriva di informarsi sui peccati di ghiottoneria del penitente, poiché la moderazione – si diceva – contribuiva alla buona salute sia dello spirito, sia del corpo. Ci si rese in seguito conto che tale sobrietà doveva levare di mezzo non solo le esagerazioni nel consumo ma anche quelle nella rinuncia, in ottemperanza all’insegnamento di Gesù in merito al citato sereno rapporto con il cibo: digiunare e astenersi sì, ma senza eccedere.
Jean de Gerson (1363-1429) condannò le penitenze alimentari troppo spinte, in quanto rischiavano di innescare due peccati più gravi della gola e con palesi ricadute sociali: l’ira, causata dell’irritabilità di un organismo prostrato, e la superbia di chi era conscio di poter sopportare abitudini interdette a molti. In tutto serviva moderazione, perché chi non si alimentava a sufficienza peccava tanto quanto il goloso.
Dopo un periodo di digiuni così estremi da costargli quasi la vita, Ignazio di Loyola (1491-1556) – fondatore della Compagnia di Gesù, l’ordine religioso di Bergoglio – fu molto deciso a seguire gli insegnamenti di Gerson, tanto da intimare ai propri confratelli una costante sobrietà nelle privazioni. La rinuncia esagerata avrebbe infatti portato con sé gravi conseguenze sociali: predicatori e confessori fiaccati dai digiuni dove avrebbero potuto trovare le forze per svolgere adeguatamente il proprio lavoro in aiuto al prossimo? La società nella quale i gesuiti erano chiamati ad agire li esigeva moderati ma sazi.