Chiediamolo a loro. Per tornare a capire il 25 aprile
Se c’è stato un momento, nella storia dell’Italia, in cui il nostro Paese ha rischiato di perdersi nel gorgo del totalitarismo, sino alla feccia del razzismo antisemita, è proprio quello che paradossalmente coincide con il riscatto democratico, nell’istante preciso in cui tanti giovani hanno detto no. No alla sopraffazione del partito unico. No alla camicia nera. No alla retorica. No alla mancanza di libertà. No al dominio di un uomo solo. Sì al dibattito parlamentare. Sì alla comunità popolare. Sì all’autenticità. Sì ad una casa comune da costruire insieme nel rispetto di valori condivisi.
È stata, quella del 25 aprile 1945, lo ha giustamente ricordato ieri il Presidente della Repubblica, che sempre più si conferma in questo momento di grande incertezza politica il perno essenziale al quale ci dobbiamo affidare, il vero compimento delle battaglie risorgimentali, le stesse che diedero finalmente un corpo fisico a una lingua così bella. Se non avessimo avuto la Resistenza, gli indimenticabili eroi del tricolore sarebbero stati infangati e noi saremmo stati tutti come il ridicolo re che scappa a Brindisi; la macchia del fascismo sarebbe ancora presente alla maniera di un segno indelebile; non avremmo superato, prima ancora che lo choc della tragica guerra, l’incommensurabile vergogna dell’alleanza con Adolf Hitler.
Tutto questo io non potevo saperlo quando da bambino fissavo incantato l’immagine un po’ ingiallita di mio nonno fucilato dai nazisti, caduto insieme ad altri nove cittadini italiani sulla strada che da Forlì conduce a Cervia; mi limitavo a scrutare i suoi lineamenti come se fossero le radici di una pianta senza sapere che appartenevano anche a me. Di più: senza rendermi conto del compito che lo sguardo di quell’uomo mi stava silenziosamente consegnando. Sono diventato insegnante e scrittore nel tentativo di dare voce alla tensione febbrile che decifravo nel volto di mia madre, incapace di spiegarmi tutto per filo e per segno come avrei voluto, ma in grado di farmi intuire, seppure in modo oscuro e rabdomantico, che il sacrificio di suo padre non apparteneva soltanto a lui, e certamente non solo alla nostra famiglia, ma chiamava in causa l’intera comunità nazionale.
La lotta di liberazione antifascista andava oltre gli steccati perché durante la dittatura erano stati lesi i princìpi universali, i valori di base, le strutture portanti del patto sociale, l’essenza stessa della civiltà umana.
È vero che i morti sono tutti uguali: ma il 25 aprile ci spiega, ancora oggi, che alcuni avevano ragione, altri torto. E’ dunque questo il motivo per cui, ogni volta che in occasione della Festa della Liberazione vedo risorgere, come nei giorni scorsi, le divisioni strumentali da una parte o dall’altra, dalla polemica spicciola di contingenza immediata agli antichi nodi ancora intrecciati, non riesco a trattenere lo stupore, prima ancora dello sgomento, come se non volessi ammettere, di fronte a me stesso, che l’uomo ricomincia sempre da capo e ogni generazione è costretta a rifare lo stesso lavoro di chi l’ha preceduta.
Essere cresciuto davanti alle rovine romane mi ha dato un certo disincanto. Devo fare in modo che questo sentimento di vanità nei confronti della storia non si trasformi in accidia. Mi aiutano i ragazzi immigrati. Festeggiando insieme ad alcuni miei scolari l’importante anniversario, mi sono reso conto di quanto fossero preziosi: gli occhi accesi di Aslam, bengalese di Dacca, mentre gli raccontavo cosa fosse stata la Seconda guerra mondiale, evocavano lampi di piena consapevolezza. La serietà di Mohamed, africano della Costa d’Avorio, mentre prendeva atto di quanto accaduto settantatré anni fa in Europa, lasciava intendere una vera comprensione. L’attenzione di Rashid, pachistano di Lahore, nell’istante in cui ho accennato alla Shoah, si è fatta ancora più forte. E allora, se vogliamo capire cosa è stato il 25 aprile per noi e come sarebbe giusto viverlo già il prossimo anno, chiediamolo a loro che non l’hanno ancora avuto.