Quegli altri profughi senza attenzione. Chi si ricorda ormai di Erbil?
La guerra in Ucraina ha sprigionato una capacità di accoglienza nei confronti dei rifugiati di cui non credevamo neppure di essere capaci, dopo tante polemiche sul tema. Eppure nel mondo la cartografia delle guerre, delle persecuzioni, dei conflitti etnicoreligiosi, è assai più estesa e drammatica. Civili in fuga, emergenze da fronteggiare, minori da proteggere, sono una delle sfide grandi e trascurate della politica internazionale. 82,4 milioni di rifugiati, diceva l’Unhcr nel suo rapporto 2021. Oggi senz’altro di più. Generosamente mobilitati per l’Ucraina, rischiamo di perdere di vista il quadro complessivo.
Erbil, Kurdistan iracheno, è uno dei punti dolenti ed emblematici della mappa internazionale dell’umanità sradicata e a rischio di abbandono. La città ferve di cantieri e vede sorgere nuovi grattacieli e centri commerciali, grazie alla spinta del prezzo del petrolio e alla vittoria sul Daesh-Isis, peraltro ancora attivo ai confini con la Siria. Ogni tanto piove un missile, ma non sembra scoraggiare gli investimenti. Eppure i rifugiati siriani sono ancora qui, insediati in campi all’esterno della capitale, senza trasporti pubblici, con difficoltà di accesso al lavoro e ai diversi servizi : circa 250mila, dicono le stime.
Vivono da anni in prefabbricati destinati alla prima accoglienza, quasi tutti senza un lavoro regolare, dipendenti dall’assistenza umanitaria che si sta progressivamente riducendo. Ancora più numerosi gli sfollati interni (1.200.000 in tutto l’Iraq), provenienti dalle aree sconvolte dalla guerra con il 'califfato nero', e in gran parte concentrati in questa regione. Molti qui sono arrivati dalla zona di Mossul. Tra di loro anche vedove e bambini senza padre, discriminati perché etichettati come mogli e figli di militanti del Daesh. La pacificazione interna è ancora lontana, tra accuse, recriminazioni, ritorsioni tra le varie componenti etniche e religiose.
Ma anche i cinque milioni di sfollati fatti ritornare nei luoghi di origine sono tutt’altro che fuori pericolo, dovendo ricominciare a condurre una vita normale in città e villaggi distrutti, privi di infrastrutture e di opportunità economiche, spesso ancora circondati dalle mine. In questo panorama, risulta particolarmente penosa la situazione dei minori: pochi vanno a scuola regolarmente. Se sono siriani o provengono da altre regioni dell’Iraq, parlano arabo, ma a Erbil le scuole sono in curdo. Inoltre, se sono rimasti lontani dalla scuola per anni o non hanno documenti validi, non vengono ammessi. A tutto questo si aggiunge il problema economico: molti sono coinvolti in qualche lavoretto per aiutare le famiglie, girano per le strade cercando di vendere qualcosa o chiedono l’elemosina attorno ai mercati.
Fenomeni un tempo sconosciuti a Erbil. Il Covid ha accresciuto precarietà e incertezza. Diversi rifugiati cristiani provenienti dalla Siria hanno ottenuto un visto per l’Australia, ma sono bloccati in Kurdistan da due anni: impossibile progettare un futuro, da una parte o dall’altra.
E anche la speranza accesa dall’abbraccio fraterno che papa Francesco portò a tutti, cristiani e no, proprio a Erbil il 7 marzo di un anno fa rischia di spegnersi, come già hanno fatto da tempo i riflettori dei media internazionali. La presenza delle organizzazioni umanitarie sul posto è tuttora importante e necessaria, ma il vento dell’attenzione del mondo soffia ora in un’altra direzione. Se non cambia qualcosa, gli aiuti continueranno a scemare e i rifugiati nel Kurdistan iracheno si ritroveranno abbandonati a se stessi.
Qualcuno paventa nuovi conflitti, qualcuno provocatoriamente dice di sperarci, per riportare un po’ d’interesse su questa regione nevralgica dei fragili equilibri del pianeta. Vorremmo credere che non ci sia bisogno di ancora più guerra.