Il direttore risponde. Che triste chi non capisce il Papa...
Caro direttore, le scrivo a proposito dell’articolo a firma Magdi Cristiano Allam apparso in prima pagina sul "Giornale" di domenica 7 luglio ("Lo sbarco di Francesco"). A Magdi vorrei dire che mi dispiace che con il suo pezzo abbia sostenuto che andando a Lampedusa il Papa avrebbe «legittimato l’immigrazione clandestina». Mi dispiace sentire e leggere una affermazione forte come questa detta da una persona colta come lui. Proprio da lui, che in passato si è speso per la difesa dei valori cristiani della nostra società: ma che cosa ci sarebbe di cristiano se il Santo Padre non si pronunciasse instancabilmente con una parola di misericordia? Questa parola vale per me, per i più disperati e anche per Magdi. E mi chiedo come si può sostenere che questa parola significherebbe legittimare l’immigrazione clandestina... Io penso che il Buon Pastore debba avere cura del suo gregge, da qualunque parte arrivi, in qualunque situazione si trovi. Papa Francesco lo ripete incessantemente nelle parole e nei gesti. Allora, perché, solo per cercare di far notizia si tenta di avviare una polemica pesante contro il Papa? Ricordo ancora con gioia quella notte di luce in cui Magdi si era fatto battezzare da Benedetto XVI. In quella notte la misericordia e la grazia di Dio erano entrate in lui e, tramite la sua persona, ancora una volta in noi. Magdi non le perda, sono un tesoro troppo prezioso per un cristiano.
Massimo Balzola, Orbassano (To)Caro direttore,
con una presunzione senza limiti, Magdi Allam (sul "Giornale" di domenica scorsa) ha voluto insegnare a Papa Francesco come si fa il pontefice, sollecitandolo esplicitamente a pranzare in una mensa «italiana» della Caritas anziché andare a Lampedusa. Qualcuno dovrebbe ricordare ad Allam che il Papa è, sì, vescovo di Roma ma soprattutto "vescovo del mondo". Un mondo che include i migranti che fuggono da guerre, povertà, discriminazioni.
Ascanio De Sanctis, Roma
Caro direttore,
scrivo mentre Papa Francesco si prepara a incontrare, a Lampedusa, alcuni di quegli "ultimi", che quando riescono a scampare alle insidie del mare, affrontato su gommoni o carcasse galleggianti, raramente riescono a sopravvivere alle procedure di respingimenti e di rigetto. Anche mentale. E anche da parte di alcuni cristiani. Tra questi Magdi Allam, che dopo l’elezione di Papa Bergoglio ha espresso il suo volontario auto-allontanamento dalla Chiesa cattolica e, ora, sembra non riesca ad accettare nemmeno la scelta di Lampedusa come prima tappa dell’itinerario di un Papa, che tra i suoi punti programmatici ricorrenti pone la preferenza per le "periferie" dell’esistenza e della società in cui viviamo. Rileggendo le dichiarazioni del fratello Magdi Cristiano del 25 marzo 2013, mi colpisce e mi affascina tuttavia una sua professione di fede e d’amore in Cristo: «Continuerò a credere nel Gesù che ho sempre amato e a identificarmi orgogliosamente con il cristianesimo come la civiltà che più di altre avvicina l’uomo al Dio che ha scelto di diventare uomo». Tuttavia, la mia immediata contro-domanda è in tutta umiltà e fraternità, in spirito autentico di pace: «Ma come si può amare Cristo senza non amare quelli che egli ama?». Non sembra una risposta valida quella espressa dallo stesso autore domenica 7 luglio sulla prima pagina del "Giornale". Pur professando il suo amore a Cristo, egli aggiunge che «prima dell’amore del prossimo viene l’amore di se stesso», convinzione che «i relativisti, i buonisti, i globalisti e gli immigrazionisti vorrebbero toglierci, obbligandoci a rispettare solo la prima parte "ama il prossimo tuo"». In realtà, se c’è uno che ha amato gli altri più di se stesso, questi è proprio Cristo, altrimenti non sarebbe morto sulla croce. E inoltre, l’amore vero - da quello di una mamma a quello di un qualsiasi essere umano verso un altro essere umano, come Massimiliano Kolbe (che in un campo di concentramento offrì la sua vita al posto di un altro) - non fa le sue ponderazioni sul bilancino del farmacista, su quale sia l’amore da privilegiare: quello di se stesso o quello del prossimo. Ama e si dona. Ama e offre la sua vita, non per amore della morte, e nemmeno per amore dell’amore, ma per amore dell’altro. Senza questa "realtà" non potrei mai capire Cristo, né i suoi martiri, né quanti danno la vita per lui e per gli altri.
Sì, Cristo e i poveri, identificati negli ultimi, non sono cristianamente scindibili. Proprio essi sono criterio e garanzia di un amore che, diversamente, rischia sempre di scadere nell’esaltazione mistificatoria, più che mistica. L’enciclica appena pubblicata da Papa Francesco ce lo ricorda, unendo indissolubilmente, come sempre deve essere, l’amore alla fede. La fede «essendo la verità di un amore, non è verità che s’imponga con la violenza, non è verità che schiaccia il singolo. Nascendo dall’amore può arrivare al cuore, al centro personale di ogni uomo. Risulta chiaro così che la fede non è intransigente, ma cresce nella convivenza che rispetta l’altro. Il credente non è arrogante; al contrario, la verità lo fa umile, sapendo che, più che possederla noi, è essa che ci abbraccia e ci possiede» ("Lumen fidei", 34).
Giovanni Mazzillo, Tortora (Cs)
Direttore dell’Istituto Teologico Calabro
Sono soprattutto triste, cari amici, per il fatto che Magdi Cristiano Allam continui a sentire l’inesorabile e sconcertante dovere di «insegnare il credo agli apostoli» (la saggezza popolare ha prodotto immagini di un’ironia definitiva, e altrettanto inesorabile...). Questo collega giornalista dopo aver pensato, tempo fa, di poter impartire aspre "lezioni" al Vescovo di Milano, colpevole di vivere il Vangelo e di rispettare la fede degli altri, si è ora convinto di dover ammonire il Vescovo di Roma, che ha osato farsi pellegrino sino all’ultimo lembo marino d’Italia per «abbracciare», anche lì, «la carne di Cristo». Il Papa ha abbracciato nostro Signore nei disperati e negli irregolari approdati in quella "periferia" estrema dell’occidente. E l’ha abbracciato nella popolazione dell’isola che - unita al proprio parroco don Stefano Nastasi e al proprio arcivescovo monsignor Francesco Montenegro - vive e coltiva da anni i sentimenti e le pratiche di fraternità che generano la civiltà dell’accoglienza. Chi era davanti alla tv ieri, per la santa Messa celebrata dal pontefice, ha potuto rendersi conto della bellezza cristiana e della forza civile di questa semplice e straordinaria gente. Una realtà esemplare e toccante, che già il 30 marzo di due anni fa spinse noi di "Avvenire", facendo eco a un’altra nostra lettrice, a invitare i nostri parlamentari di ogni orientamento a promuovere con decisione la candidatura dei lampedusani al Premio Nobel della Pace. Niente, purtroppo. Ora, però, la gente dell’isola ha ricevuto - e condiviso con tanti poveri migranti - un riconoscimento persino più bello: la speciale visita e il "grazie" del successore di Pietro.
Allam sembra che non riesca a vedere, a capire o almeno a intuire tutto questo. Per questo, oggi come in passato, c’è appunto solo da essere tristi. E non certo per il nostro amatissimo Francesco, ma per il polemista di tanto nome che - uso l’immagine che il Papa ha preso a prestito da Manzoni - si fa tentare dalla logica degli «Innominati»: coloro che hanno forza (e opinioni pesanti), ma perdono il volto dell’altro e così perdono anche il proprio, impoverendosi di indifferenza, privandosi di capacità di pianto, infiacchendo il proprio slancio solidale. Riesco solo ad augurarmi che Magdi Cristiano - uomo della sponda Sud del Mediterraneo che si è fatto uomo della sponda Nord - sia riuscito, ieri, ad ascoltare davvero Papa Francesco. Mi auguro che accetti di farsi riabbracciare, lui, da Cristo, come nel giorno del suo battesimo. E mi auguro che questo abbraccio - che libera la vita e lo sguardo - accada senza clamori e nel modo più dolce e forte: magari attraverso la parola di un amico, magari anche grazie ad alcune preziose riflessioni contenute nelle vostre lettere, magari nella pace di una chiesa appartata e accogliente, magari in una mensa della Caritas (servendo un fratello perché fratello e non perché italiano o islamico o cattolico), magari nell’incontro semplice e illuminante con una delle persone che come tanti altri chiama "clandestini".
Non mi stanco di ricordarlo, prima di tutto a me stesso: ci sono uomini e donne che violano la legge, così come ci sono coloro che vengono violati e ingiustamente perseguitati nel nome di una qualche legge, così come ci sono leggi che violano il diritto di natura e il diritto delle genti. Ed esistono, certo, gli irregolari. Irregolari per scelta e per convinzione, irregolari per condizione e per costrizione. Ma a qualsiasi latitudine, davvero ovunque sotto il cielo di Dio e sulla faccia della terra degli uomini e delle donne, nessuno mai è un "clandestino".