Potenza, Caserta, Lodi, Cagliari. Le manette hanno ricominciato a tintinnare forte, le sentenze a fioccare, le intercettazioni a riempire paginate di giornali, per lo più in direzione del governo e del maggior partito che lo sostiene, il Pd. Tutto tra un referendum sulle trivelle, che dopo l’esplosione dell’inchiesta su Tempa Rossa e Viggiano ha inevitabilmente assunto una colorazione politica, e una tornata di elezioni comunali che, coinvolgendo quasi tutte le maggiori città italiane, è impossibile classificare come semplice test amministrativo. Finora Matteo Renzi, nella sua duplice veste di presidente del Consiglio e segretario del Pd, ha resistito alla forte tentazione di parlare pubblicamente di giustizia a orologeria. Ha escluso l’ipotesi di un complotto delle procure con un romanesco 'maddeché'. Piuttosto, vinta la battaglia astensionista per la consultazione del 17 aprile, sta cercando di spostare l’attenzione sulle riforme: pensioni, fisco, forse famiglia e, soprattutto, Costituzione, con il referendum confermativo di ottobre. E proprio su questo punto, ovvero sulla presunta 'pericolosità' delle modifiche apportate alla Carta (e, di conseguenza, delle intenzioni di Renzi), si concentrano le bordate degli ambienti più critici della magistratura. Non a caso si è reso necessario un intervento formale del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini (giusto ieri ricevuto dal presidente della Repubblica e dello stesso Consiglio superiore, Mattarella), per riaffermare un concetto che dovrebbe essere scontato: le toghe devono tenersi a distanza dalla lotta politica. Sulle elezioni comunali, invece, il premier glissa, soprattutto su quelle di Roma che per i dem sono quelle più scomode, a causa di 'Mafia Capitale' (il maxi-processo è in corso, ma sono già arrivate le prime condanne con rito abbreviato) e dell’imbarazzante parentesi firmata da Ignazio Marino in Campidoglio. Ma intanto la frana giudiziaria continua: dopo le dimissioni del ministro Guidi da non indagata, sono arrivati i casi del presidente regionale campano del partito Graziano e del sindaco di Lodi Uggetti, infine la condanna per evasione fiscale del segretario regionale sardo del Pd ed europarlamentare Soru. Certo, al partito erede dell’Ulivo e almeno in parte del Pci, deve fare una strana impressione trovarsi 'dall’altra parte', quella che per una ventina d’anni abbondante è stata occupata in genere da Silvio Berlusconi e da esponenti delle sue creature politiche, Forza Italia e il Pdl. E prima o poi, di questo passo, sarà difficile per Renzi e i suoi resistere alla tentazione di cui sopra. Finora, come detto, a Palazzo Chigi e a Largo del Nazareno ci si è limitati a esprimere «fiducia nella magistratura». Proprio come si faceva, magari fregandosi le mani, quando al centro delle inchieste c’erano l’ex-Cavaliere e i suoi colleghi di partito o di governo. Ma è evidente che il conflitto tra una parte della magistratura e la politica – divampato nel 1992 e in realtà mai terminato, rimasto piuttosto a covare come brace sotto le ceneri di Tangentopoli – è tornato al livello di guardia. E bisogna davvero sforzarsi per leggere come una bizzarria della storia l’elezione a presidente dell’Associazione nazionale magistrati, un mese fa, di Piercamillo Davigo, che della stagione di Tangentopoli fu protagonista con il pool 'Mani Pulite' di Milano. Il pm 'legge e ordine' che nel ’94 disse che bisognava «rivoltare l’Italia come un calzino» è tornato e, come prima uscita pubblica, ha sentenziato in un’intervista: «I politici oggi rubano più di prima, ma non si vergognano più». A stretto giro è arrivata l’intervista al Foglio di Piergiorgio Morosini, togato di Magistratura democratica al Csm, il quale ha smentito il titolo («Perché Renzi va fermato») ma non la sostanza. Ovvero: la riforma della Costituzione va respinta nelle urne referendarie. Benzina sul fuoco, sale sulle ferite della maggioranza. E musica per le orecchie del M5S, che nel panorama parlamentare ha idealmente sostituito in quanto a giustizialismo l’Idv dell’ex-pm Antonio Di Pietro, a suo tempo la vera star del pool 'Mani Pulite'. Con una differenza di non poco conto: i 5 Stelle hanno nelle Camere un ben maggiore peso numerico e (grazie allo sgretolamento del bipolarismo dovuto per lo più proprio al calo di fiducia degli italiani verso i partiti tradizionali) un ben maggiore seguito elettorale. Insomma, se l’espressione non rimandasse alle immani tragedie del nostro tempo, si potrebbe parlare di uno scenario di guerra. Uno scenario all’interno del quale il governo, con il ministro della Giustizia Andrea Orlando, sta provando a riformare il processo penale. Tutti, infatti, concordano su un punto: il male principale della giustizia italiana è l’esasperante lunghezza dei processi. I dolori arrivano quando si tratta di individuare la soluzione. Nel 2009 il centrodestra al governo credeva di aver trovato l’uovo di Colombo nel cosiddetto 'processo breve', cioè nella fissazione della durata per legge: da 3 a 5 anni per il primo grado di giudizio; da 2 a 3 per l’appello; da un anno e 6 mesi a 2 anni per la Cassazione. Il testo, approvato al Senato, si arenò alla Camera non soltanto per le consuete accuse di voler risolvere per via parlamentare le grane giudiziarie di Berlusconi, ma anche per i timori (fondati) che la macchina giudiziaria non avrebbe retto la 'rivoluzione', condannando tanta parte dei procedimenti penali alla prescrizione, di cui per altro la stessa maggioranza aveva in precedenza abbreviato la decorrenza con la legge ex-Cirielli. Già, la prescrizione, perenne pomo della discordia in Parlamento e nodo fondamentale del conflitto toghe-politica. Eppure la prescrizione non è un trucco inventato da una cricca di politicanti corrotti, bensì un principio di civiltà giuridica basato sull’assunto che uno Stato deve essere in grado di assicurare la giustizia ai suoi cittadini in tempi ragionevoli. Ora il Pd, contro il parere degli alleati di Area popolare, sembra orientato ad allungare i termini della prescrizione per i reati contro la pubblica amministrazione (come peculato corruzione, concussione, abuso d’ufficio) fino a 18/20 anni. I grillini si spingono oltre, chiedendo la sospensione della prescrizione senza limiti di tempo dopo una sentenza di condanna in primo grado. Praticamente una 'graticola' mediatica sulla quale abbrustolire carriere politiche. Sì, perché poi può accadere che il politico di turno finisca assolto ma non se accorga nessuno o quasi, perché intanto sono trascorsi interi anni e, nell’immaginario collettivo, la condanna è già arrivata a mezzo stampa nel momento dell’iscrizione tra gli indagati. Ecco perché il presidente del Consiglio non sbaglia quando invita i giudici «ad andare a sentenza». Quanto ai comuni cittadini, c’è un dato che fa rabbrividire: ogni anno circa 7mila persone finiscono in carcere da innocenti, cioè saranno assolte al termine di una trafila giudiziaria dalla durata troppo spesso intollerabilmente lunga. Di certo, la proposta di bloccare la prescrizione dopo la condanna in primo grado sarebbe un incentivo ad accelerare gli altri gradi di giudizio da parte delle difese. Ma potrebbe rappresentare un comodo paravento per un’amministrazione che fatica terribilmente a 'inghiottire' pendenze e sopravvenienze a causa di carenze organizzative, strutturali e di organico, anche impiegatizio: i dati della Cassazione dicono che la giacenza media dei processi penali è aumentata costantemente negli ultimi tre anni. Negli stessi anni, ha comunicato sabato scorso il ministro Orlando, anche il numero dei fascicoli caduti in prescrizione è ricominciato a salire, dopo il buon calo del 40% registrato lungo i dieci anni precedenti. E c’è da mettere nel conto che, probabilmente, l’efficienza dei palazzi di Giustizia non trarrà beneficio dalla mesta atmosfera da 'rompete le righe' che si respira negli ambienti della magistratura onoraria, dopo l’approvazione della riforma di settore. Queste toghe non 'ordinarie', ma straordinarie per il contributo che danno ogni giorno nei tribunali e negli uffici dei giudici di pace, attendevano una stabilizzazione che era stata promessa ma, nei fatti, non è arrivata. E adesso molti tra i più giovani si stanno guardando intorno, come si suol dire. Il ministro Orlando, comunque, ha assicurato che il nodo della prescrizione sarà sciolto entro l’estate. Può darsi, divergenze con gli alleati permettendo. Ma la sfida non è soltanto quella di evitare il macero a oltre 130mila procedimenti penali ogni anno, nel 58% dei casi ancora nella fase delle indagini preliminari. Allungare i termini di decorrenza o sospenderli non è così complicato. Assai più difficile è garantire ai cittadini, politici e no, efficienza, trasparenza, rapidità. In due parole, una giustizia giusta.