Opinioni

Utili e da potenziare, ma non sono la panacea. Centri per l’impiego la cura possibile

Leonardo Becchetti giovedì 19 aprile 2018

La piaga numero uno del Paese resta quella della quantità e qualità dei posti di lavoro. Cercando disperatamente la pietra filosofale per risolvere il problema ci innamoriamo periodicamente di uno strumento. Abbiamo furiosamente dibattuto fino a poco tempo fa sul valore salvifico dei contratti (voucher, articolo 18, Jobs Act) che sicuramente contano, ma non sono tutto.

Oggi torna al centro dell’attenzione il tema delle politiche attive e dei centri per l’impiego, ovvero quelle strutture coordinate dalle Regioni che favoriscono sul territorio l’incontro tra domanda e offerta di lavoro e attuano iniziative e interventi di, appunto, politica attiva. Per capirne potenzialità e limiti, la letteratura economica ci ricorda che la mancanza di lavoro può dipendere essenzialmente da quattro fattori. Il primo è l’asimmetria informativa che, se superata, ci consente di risolvere tutti quei casi in cui il posto che l’aspirante lavoratore cerca esiste, ma non si hanno le informazioni necessarie per trovarlo.

Migliorando competenze e strutture informatiche (e riducendo la grave carenza di addetti) i centri dell’impiego possono ridurre l’asimmetria informativa favorendo incontro tra domanda e offerta anche sfruttando programmi come quello di Garanzia Giovani finanziato con fondi comunitari e utilizzando strumenti come l’apprendistato che consentono a domanda e offerta di conoscersi e sperimentarsi. Il secondo fattore è la vivacità del mercato del lavoro locale e nazionale.

E su questo i centri per l’impiego possono fare poco. In parole semplici è molto più facile che funzioni un centro per l’impiego a Trento o a Modena che uno a Crotone semplicemente perché le opportunità disponibili (e il bacino dei disoccupati) non sono gli stessi nelle diverse aree. Il terzo fattore è il mismatch, ovvero il fatto che ci sia un divario tra le competenze e le professionalità richieste nei posti di lavoro vacanti e gli aspiranti lavoratori.

È questo uno degli ambiti sui quali si può migliorare anche grazie all’azione complementare di operatori privati. Le esigenze di chi cerca lavoratori cambiano, infatti, continuamente e organizzare in tempi rapidi momenti di formazione per colmare il divario con le competenze di chi non ha lavoro è un’urgenza dei nostri tempi nonché essa stessa un’opportunità di lavoro. Il quarto fattore è il salario di riserva, ovvero le condizioni minime alle quali un aspirante lavoratore è disponibile ad accettare un lavoro. Il salario di riserva è uno dei classici temi di discussione tra economisti 'neoclassici' e 'keynesiani'.

I primi dicono paradossalmente che i disoccupati sono tutti disoccupati volontari perché i posti di lavoro ci sarebbero, ma loro non sono disposti ad accettarli. I keynesiani controbattono che non può essere considerato un disoccupato volontario chi non accetta un lavoro palesemente al di sotto delle proprie aspettative e competenze. I Centri per l’impiego la questione del salario di riserva la affrontano tutti i giorni, perché è sottile il confine tra l’accettazione o il rifiuto di una proposta di lavoro. Il salario di riserva non è necessariamente un livello di remunerazione, ma qualcosa di più complicato che può avere a che fare con le caratteristiche del lavoro, nonché con lo status sociale che quel lavoro consente di raggiungere.

Esistono nel nostro Paese alcuni lavori anche ben pagati che hanno però caratteristiche e status sociale connesso tali da essere rifiutati da molti che cercano lavoro. Anche su questo punto i centri dell’impiego possono poco perché il salario di riserva è una scelta libera dell’individuo e dipende in parte anche dalla sua storia di vita. Le nuove generazioni hanno vissuto in una condizione di benessere che ne ha alzato le aspettative (e dunque anche il salario di riserva) e fanno grande fatica a ridurre tali aspettative anche di fronte a situazioni di difficoltà.

Corretto però, in questi casi (rifiuto di offerte di lavoro potenzialmente accettabili), che misure di sostegno come il reddito d’inclusione vengano meno per evitare che sia lo stesso reddito d’inclusione ad alzare aspettative, salari di riserva e livelli di disoccupazione. Centri dell’impiego e politiche attive, opportunamente potenziate, possono dare un contributo importante a risolvere due dei fattori che incidono su disoccupazione e mercato del lavoro (asimmetrie informative e superamento del mismatch attraverso momenti di formazione). La vivacità del mercato del lavoro (dettata da fattori strutturali e macroeconomici) resta però la variabile principale su cui si gioca la soluzione del problema.