Ci sono, ma non si vedono. Meglio, non li vediamo perché non vogliamo vederli. A volte non serve neppure voltare la testa. Basta tenere lo sguardo fisso davanti a sé, come se fosse puntato nel vuoto. In definitiva, questo sono: un vuoto, una mancanza di cui non sappiamo darci spiegazione, l’estremo al quale cerchiamo di fuggire. Ci sono e non si vedono. Neanche in tv, se è vero che il programma che qualche anno fa si era prefisso di raccontare le loro storie (e le raccontava bene, oltretutto, con ascolti non disprezzabili) fu soppresso per mancanza di pubblicità. Gli investitori non se la sentivano di associare i loro prodotti all’abisso in cui erano caduti gli «invisibili», come recitava – non a caso – il titolo della trasmissione. Non si vedono, ma ci sono, per quanto di questi tempi non si sappia come chiamarli:
homeless all’americana o
clochard alla francese? Scartato per sgradevolezza il vecchio “barboni”, resta “senza fissa dimora”. Che suonerà burocatico, ma una volta non è un male. Il luogo in cui l’invisibilità si trasforma in inesistenza è per l’appunto la Pubblica amministrazione. Facciamo conto che, in questo periodo di censimento, un modulo non arrivi a destinazione perché il titolare non sia più rintracciabile. Niente residenza, niente cittadinanza. La derubricazione arriva in un istante. La non-persona potrebbe essere morta, forse. Senz’altro è morta per la società.Non vogliamo vederli, d’accordo. Ma sappiamo che ci sono. Nessuna difesa è perfetta, di tanto in tanto capita di inciamparci addosso sul marciapiede oppure di avvertirne la presenza da lontano (come l’avvertiamo, quella presenza, lo sappiamo tutti, non è il caso di spiegarcelo). Non sappiamo quanti siano, invece. Sfuggiti alle coordinate dell’anagrafe, i “senza” sembrerebbero impossibili da contare. Anche per questo, in definitiva, le loro vicende appaiono irrilevanti. Conoscere i numeri cambierebbe qualcosa? Probabilmente sì ed è auspicabile, quindi, che qualcosa cambi grazie all’iniziativa lanciata dal ministero del Welfare in collaborazione con Istat, Caritas e Fiopsd, la federazione che riunisce le realtà pubbliche e private che degli invisibili si prendono cura. Anziché affidarsi alla compilazione online, quest’altro censimento poggia sull’opera dei volontari. Si propone di fare la conta, certo, ma anche di indagare le cause di una condizione la cui complessità, ora come ora, è lasciata principalmente all’intuito degli operatori.I motivi per cui si diventa “senza” li possiamo immaginare: per gli italiani può essere la perdita del lavoro, per gli stranieri la clandestinità. E poi ci sono i padri separati, che non riescono a tenere il passo con gli alimenti. Ci sono le famiglie sotto sfratto, che non riescono a trovare ospitalità. Ciascuna di queste situazioni delinea una frontiera spesso difficile da superare, perché anche quando i servizi sociali riescono finalmente a istituire un contatto, si tratta di un legame labile, che può spezzarsi in un istante. Una nuova sparizione, un altro passo nell’anonimato. Ecco perché gli invisibili vanno contati, sì, ma più che altro ascoltati: perché ci sono, perché ci riguardano.