Opinioni

L’astensione. Cattolici e politica un filo da riannodare

Giorgio Campanini domenica 2 luglio 2017

A più riprese, e con autorevoli interventi, sulle pagine di “Avvenire” è stato riproposto il problema del difficile dialogo – per non dire di un freddo silenzio – tra comunità cristiana e politica, con un distacco iniziato – a giudizio di altrettanto autorevoli osservatori – con l’abbandono dell’esplicito riferimento all’ispirazione cristiana di un partito, la Dc, che a lungo era stato il più saldo punto di riferimento in politica dei cattolici italiani. Ma, finita quella stagione, è oggi improponibile un partito che nei fatti (anche se non necessariamente nella denominazione) abbia alla sua base i valori del Cristianesimo?

La malaccorta, o forse strumentale, interpretazione di una dichiarazione rilasciata da papa Francesco, il 29 aprile scorso, in occasione del suo viaggio in Egitto sembra avere autorizzato alcuni commentatori a recitare il de profundis circa la possibilità di un’esplicita ispirazione cristiana della politica, ma in verità non è così. «Parlando dei cattolici – ha testualmente affermato il Papa –, uno mi ha detto: Perché non pensa di far fare un partito per cattolici? Ma questo signore vive nel secolo scorso». Queste parole sono state interpretate da gran parte della stampa come definitiva liquidazione dei partiti di ispirazione cattolica, oltre tutto bollando di obsolescenza (appunto perché nati nel Novecento) partiti di ispirazione cristiana ancora vivi e vegeti, quali esistono in numerosi Paesi dell’Europa centrale, a partire dalla Cdu tedesca.

L’ironia del Papa è in realtà riferita a quel far fare. Non è la Chiesa a “fare” (o a “disfare”) un partito politico: sono i cittadini cattolici a scegliere se militare in un partito laico oppure a denominazione cristiana, fatto salvo il dovere di attenersi, ovunque si trovino a operare, agli autentici valori del cristianesimo, riproposti dalla Chiesa attraverso il suo insegnamento in materia di Dottrina sociale. Che sia la Chiesa a “fare” o a “disfare” i partiti: è questo ciò che appartiene al secolo scorso... Resta comunque il disagio, nell’elettorato cattolico italiano, nel dover votare partiti “laici” all’interno dei quali operano anche cattolici, ma che non sempre sono del tutto coerenti, per la loro stessa natura pluralistica, in ordine alle istanze etiche a più riprese proposte dalla Dottrina sociale della Chiesa.

Dietro difficoltà a misurarsi sino in fondo con la legittima laicità della politica stanno, da una parte, la sottovalutazione dell’importanza che la buona politica ha per una serie di valori che, per essere anche laici, non per questo sono “meno cattolici”: si pensi alla salvaguardia della pace, alla lotta alla disoccupazione, all’accoglienza dei migranti, e così via; dall’altra parte una lettura della storia in base alla quale si interpretano i successi (o gli insuccessi) dei politici di ispirazione cristiana soltanto in ordine a pure importanti questioni etiche. Amintore Fanfani non è riuscito a impedire il divorzio né Benigno Zaccagnini la depenalizzazione dell’aborto, ma si può seriamente ritenere che il loro impegno politico sia stato insignificante? Occorre dunque fare i conti con quel relativo che è sempre, e inevitabilmente, la politica e imparare ad accettare il dialogo e a sottoporsi alla fatica della mediazione.

Solo in casi eccezionali e di manifesta incompatibilità tra valori evangelici e prassi politica sarebbe doveroso “ritirarsi sotto la tenda”; ma non dovrebbe essere questa la normale scelta di coloro che, da credenti, si impegnano in politica e di quanti, essi pure credenti, sono chiamati a esprimere il loro voto. L’astensione dal voto, la “scheda bianca”, la presa di distanza dovrebbero essere sempre una dolorosa eccezione, mai la regola.