Opinioni

Analisi. Che fine hanno fatto i caschi blu (di cui il mondo ha più che mai bisogno)

Paolo M. Alfieri sabato 13 luglio 2024

Il Papa con i caschi blu in uno scatto del 2016

A un certo punto per le strade di Goma, in quel crocevia di traffici, interessi e violenza che è la provincia congolese del Nord Kivu, paradossalmente non sapevi più se guardarti le spalle dalle milizie o dai caschi blu. A qualche chilometro di distanza i militari congolesi sparavano sugli uomini dell’M23, banda armata con agganci nel confinante Ruanda. E in città, al continuo passaggio delle camionette della missione Onu potevi solo sperare: armi in pugno, quegli uomini arrivati dall’Egitto e dalla Cina, dal Ghana e dal Guatemala, sembravano i più tesi di tutti. In quei giorni, una base di rifornimento della loro missione, la Monusco, veniva assaltata dalla popolazione locale, con 15 vittime, tra cui anche tre caschi blu. Protestavano, i manifestanti, contro l’inefficienza della più costosa e impegnativa missione Onu di peacekeeping - 18mila uomini tra cui 12mila soldati -, in un mix di frustrazione e rabbia contro chi, in due decenni di intervento sul campo, non era stato in grado di ridurre le violenze.

Nei giorni in cui si discute di nuovi finanziamenti alla Nato, altre domande si affacciano sulle prospettive delle missioni di peacekeeping delle Nazioni Unite, loro stesse imbrigliate in nodi finanziari e politici. Al tempo della terza guerra mondiale a pezzi, appare clamoroso il deficit di fiducia e legittimazione di questi interventi, ritenuti in giorni nemmeno troppo lontani il meccanismo a cui ancorare speranze di pace e di stabilizzazione dei territori di conflitto. E invece. Le missioni Onu per come le abbiamo conosciute negli ultimi tre decenni stanno cambiando faccia o, addirittura, smobilitano. Proprio come nel caso del Congo - dove entro fine anno sarà partito anche l’ultimo casco blu, pur in una situazione che resta di guerra e di disastro umanitario – o del Mali, in questo caso su richiesta degli stessi golpisti al potere legati a doppio filo a Mosca.

La crisi del peacekeeping è la crisi dell’Onu, quella dei veti incrociati, di un certo isolazionismo trumpiano che ha fatto scuola, dell’ulteriore frammentazione del mondo post-guerra in Ucraina. Il multilateralismo che fatica e alla cui causa non hanno giovato gli scarsi risultati di diverse missioni di peacekeeping. Non di rado, l’inefficienza è stata sfruttata da classi politiche locali, dalla Repubblica centrafricana al Sud Sudan, che hanno fatto dei caschi blu il capro espiatorio della loro stessa inefficacia. Ad Haiti già ci si chiede se la nuova missione internazionale a guida keniana – autorizzata a ottobre dello scorso anno dal Consiglio di sicurezza e i cui primi 400 uomini su 2.500 sono appena stati dispiegati sul terreno – saprà davvero far meglio della missione Onu Minustah conclusa nel 2017 e naufragata tra gli scandali. La stessa decisione di non far ricadere l’operazione sotto la diretta guida delle Nazioni Unite è motivata proprio dall’estrema impopolarità dell’intervento precedente. Per tornare sul terreno, insomma, i peacekeepers oggi devono levarsi il casco blu.

Il tempo e le missioni hanno cambiato anche le aspettative delle popolazioni locali, mentre il mondo ha visto cambiare le guerre, con il moltiplicarsi di milizie in un sistema internazionale più frammentato. Aumentano i conflitti, diminuiscono le missioni di pace. E questo nonostante diversi studi mostrino come, a dispetto di alcuni clamorosi fallimenti, i livelli di violenza e di vittime civili siano più bassi nei contesti in cui queste missioni sono dispiegate. Imparzialità e uso limitato della forza sono principi fondanti del peacekeeping, che ha l’obiettivo di creare spazio perché la pace si realizzi, piuttosto che di farla rispettare con la forza. Ma quanto ciò è ancora possibile in tempi in cui spesso i conflitti non oppongono eserciti chiaramente individuabili, ma coinvolgono milizie identitarie, gruppi ribelli transnazionali, formazioni paramilitari a caccia di risorse lungo territori di confine?

Negli ultimi anni sono aumentate le missioni “locali”, come quelle dell’Unione Africana e dei suoi corpi regionali (da inizio millennio ben 38 in 25 Paesi): spesso non sono “missioni di pace” per come intese finora, ma operazioni di sostegno ai governi locali, come quella in Somalia o quella della Sadc in Mozambico, appena ritiratasi da Cabo Delgado. Sono interventi contraddistinti però da un “marchio” molto più militare, mentre assenti sembrano restare il processo politico-diplomatico e un qualsiasi tentativo di affrontare i problemi strutturali che hanno consentito a quei conflitti di restare braci ardenti così a lungo. Resta ben poca pace da mantenere laddove lo spazio per quella pace, e per una pace duratura, non è stato a dovere creato.