Opinioni

Consigli non richiesti. Caro Jannik sarai sempre un campione. Anche e soprattutto se...

Riccardo Maccioni lunedì 18 novembre 2024

La gioia composta di Sinner dopo la vittoria a Torino

Jannik Sinner è forte, fortissimo. Bravo, bravissimo. Di più: «Ingiocabile», come dice l’ex mito azzurro e oggi commentatore tv Adriano Panatta. Nel senso che per batterlo ci vorrebbe un extraterreste, sempre che nelle altre galassie si giochi a tennis. Ma oltre che sul campo Sinner è il numero uno anche nel dopo gara: mai una parola fuori posto, i ringraziamenti detti nell’ordine giusto, prima il team (la squadra), gli sponsor e la famiglia, poi il pubblico, da salutare con affetto anche nel caso, e non succede quasi mai, che gli tifi contro. Sinner è così “giusto” in tutto da dare quasi fastidio. E lo diciamo da sinneriani convinti. Perché è inutile girarci intorno, siamo un Paese, ma forse è così ovunque, che mal sopporta il talento di successo. Chi ha qualcosa in più degli altri piace se la fortuna guarda altrove. Ammiriamo lo sconfitto che avrebbe potuto vincere, oppure l’outsider che ce la fa a dispetto dei pronostici. A patto che capiti un’unica volta, perché chi bissa la vittoria non può più essere considerato una sorpresa, e quindi lo si ammira proporzionalmente meno.
Nel caso di Sinner il problema, comunque, non si pone: due slam e le finals di Torino vinti nello stesso anno, solo 6 partite perse su 70 giocate, 17 milioni di premi partita, cui vanno aggiunti i contratti pubblicitari (trovi la sua faccia ovunque) e i 6 milioni “conquistati” nell’esibizione tra i re della racchetta e gli sceicchi del petrolio, a Riad. E tutto questo senza sbracare neppure una volta sui social, neanche lo straccio di una storia d’amore sfigata da “sparare” in prima pagina. Una forza mentale pazzesca persino nel gestire la vicenda doping con il rischio di una squalifica che potrebbe arrivare a febbraio, ultima pesantissima goccia di uno stillicidio che avrebbe mandato in tilt chiunque. Ma lui no. Perché Jannik è forte, fortissimo dentro. «Non sembra neanche italiano», dice il signore anziano davanti al primo caffè del mattino. «Hai visto come ha esultato a Torino? Le braccia alzate e basta. Io mi sarei buttato per terra e avrei corso per tutto il palazzetto».
Lui invece i complimenti all’avversario, la firma sulle palline da lanciare al pubblico, un abbraccio timido ad allenatori e famiglia, e basta. Davvero non siamo abituati a uno così. Forse anche per questo rischia di dare fastidio. Perché a noi italiani piacciono i campioni in cui possiamo specchiarci. E qui proprio non ci siamo. Mai una scenata contro il giudice di linea, nessuna racchetta lanciata per aria, persino l’acqua data a una spettatrice indisposta e, a partita ferma per la pioggia, l’ombrello aperto a riparare la raccattapalle. Bravo, bravissimo Sinner, quasi perfetto.
Il problema sta proprio lì, il nostro numero uno è un campione talmente giusto da suscitare ammirazione più che amore. Sono sentimenti molto diversi. L’ammirazione è questione soprattutto di testa, l’amore riguarda la persona in toto. Però l’una non esclude l’altra, nel senso che l’ammirazione può diventare amore, l’emozione può dare scacco alla razionalità, la mente può passare in secondo piano rispetto al cuore. Ma perché succeda occorre, paradossalmente, “diventare meno”. Cioè mostrare i difetti, far emergere le proprie fragilità, non nascondere o comunque nascondere poco, le inquietudini. Per questo, caro Jannik, ci permettiamo di darle qualche consiglio. Anche se non le viene naturale ogni tanto dopo un punto particolarmente difficile vinto, anziché alzare solo il pugnetto, urli. E poi si lamenti per un’ingiustizia, dica una frase sopra le righe (fuori dal campo si può), ogni tanto finga di essere un outsider anziché il numero uno, allo stesso modo di chi ha il potere e si comporta come se dovesse ancora conquistarlo, come se fosse all’opposizione. Sia insieme di governo e di lotta. E se un giorno dovesse lasciarsi andare, non succederebbe nulla. Anzi. Perché a noi italiani piace il campione venato di un pizzico di sana pazzia, a costo di sbagliare e cadere. Come Alberto Tomba, come il primo Valentino Rossi, come Gimbo Tamberi. Così che sia più facile, persino divertente, andare in soccorso del vincitore. Sport in cui siamo tutti campioni.