Opinioni

Il direttore risponde. Carceri legalità è certezza della pena

Marco Tarquinio sabato 1 marzo 2014
Gentile direttore,
leggo da tempo "Avvenire" e ho avuto modo di constatare come su queste pagine la linea del "perdonismo" sia stata portata avanti con grande costanza sia dentro le carceri che fuori. Niente di male, ovviamente, e in sintonia con lo spirito del mondo cattolico, che il giornale rappresenta. Vorrei però chiedervi se perseguite il bene della collettività, considerato che siamo fra i Paesi più corrotti e ormai è diffusa l’idea che la giustizia non funzioni e non ci sia certezza della pena. La lunga teoria di condoni e indulti ha abbassato moltissimo la morale del Paese. Per risolvere il problema delle carceri occorre fare funzionare la giustizia e non ricorrere a provvedimenti di perdono individuali o collettivi che siano.
Pietro Balugani
   
Lei legge da tempo "Avvenire", gentile signor Balugani, e però considera contrassegnata da «perdonismo» (ma, forse, se ho capito bene come la pensa, avrebbe dovuto scrivere «condonismo») la linea che portiamo avanti da anni sulle nostre pagine e alla quale si possono fare ovviamente molte critiche, ma della quale non si può proprio dire che non sia chiara. In tutti i campi siamo contro la logica dei condoni, proprio perché con il vero perdono essa nulla c’entra. Torno perciò a sottolineare volentieri che la nostra linea è imperniata su due capisaldi. Prima di tutto, il rispetto pieno della «legalità», e questo significa «certezza della pena» e sua «appropriatezza» (in un contesto teso a coniugare sicurezza pubblica e recupero della persona che ha commesso il reato), ma anche rigoroso rispetto dei diritti umani e costituzionali di coloro che finiscono in cella. In secondo luogo, è netta la preferenza per «soluzioni strutturali» e non per ricorrenti atti di clemenza, che pure possono essere contemplati in particolari frangenti e, diciamo così, nel giusto "clima morale". «Soluzioni strutturali» vuol dire scelte e azioni capaci di affrontare adeguatamente il cronico e vergognoso problema del superaffollamento delle nostre carceri e della parziale e faticosa realizzazione di opere preziose (anche in termini di drastica riduzione del tasso di ripetizione dei comportamenti delittuosi) per l’avviamento dei detenuti al lavoro e al reinserimento sociale. È una visione coerente con lo sguardo cristiano che, ripeto, non confonde mai condono e perdono. Per questo abbiamo applaudito in modo convinto la lucidità e il vigore con cui, lo scorso ottobre, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha posto preoccupazioni analoghe al centro del primo e unico Messaggio che ha sinora inviato al Parlamento. Il capo dello Stato, del resto, negli anni del suo primo mandato, si era già distinto per la costante attenzione al tema della condizione di vita (e di lavoro) negli Istituti di pena. E se almeno lui fosse stato ascoltato, avremmo evitato la sanzione – e un ultimatum, con scadenza a fine maggio – che la Corte europea dei diritti dell’uomo ci ha riservato per il trattamento disumano e persino, nei fatti, di «tortura» al quale in Italia arriviamo a sottoporre i carcerati. L’idea di un possibile provvedimento straordinario di clemenza, non escluso dal Quirinale ed evocato in queste ultime settimane anche dal primo presidente della Corte di Cassazione, è tornata ad affacciarsi anche perché la lentezza nella risposta del nostro Parlamento rischia di portare lo Stato italiano a dover far fronte assai presto a pesanti risarcimenti (si parla di alcune centinaia di milioni di euro) da versare ai maltrattati "ospiti" delle patrie galere.
Detto questo, constato che il clima politico non è favorevole ad atti di clemenza straordinari (il "fronte del no" va dal neopremier Matteo Renzi a Beppe Grillo) anche se calibrati per evitare di ricomprendervi reati odiosi che sono anche (ma non soltanto) quelli legati alla corruzione. E tutti possono rendersi conto che manca la speciale cornice "morale" che – come al tempo del Grande Giubileo del 2000 e degli appassionati appelli del grande Giovanni Paolo II –  può dare senso a un simile atto-evento. Ma il 4 marzo la Camera dei deputati – messa alle strette, dopo tre rinvii, dalla sua stessa presidente Laura Bodrini – finalmente dibatterà il messaggio presidenziale. Speriamo che con onestà e realismo si valuti la situazione in tutte le sue implicazioni. Senza troppe demagogie e senza vuote ritualità. In troppe carceri italiane si sperimenta l’ingiustizia. Un paradosso terribile, che deve finire, nel nome della legge scritta nei codici e del diritto che è scritto nei cuori e che ogni legge positiva precede.