Riflessione. «Cara Michela, grazie per aver parlato di morte». Lettera aperta a Murgia
Cara Michela,
fra qualche giorno uscirà il tuo nuovo romanzo e, dopo avere letto la tua bella intervista, lo attendo con ansia.
Tu ed io abbiamo almeno tre cose in comune, oltre – evidentemente – al genere. Entrambe siamo sarde, entrambe siamo credenti ed entrambe siamo femministe. Anche se, proprio a partire dal femminismo, arriviamo a posizioni differenti su alcune questioni. Mi riferisco, nello specifico, al tema della “maternità surrogata”.
Non, credimi, per una paternalistica pretesa di regolare la genitorialità altrui. Il Sud del mondo, che amo frequentare, mi ha mostrato drammaticamente quanto spesso le scelte degli esseri umani – in particolare delle donne sulle cui spalle il fardello dell’esclusione è ancora più pesante – non siano atti di libera autodeterminazione bensì gesti di disperazione per sopravvivere e far sopravvivere i propri cari. Espressioni di un’ingiustizia strutturale da cui il Nord del pianeta si lava le mani nell’illusione di pagare “un prezzo giusto”.
Ma non è questo ciò di cui volevo parlarti. In realtà ti scrivo per dirti grazie. Grazie per avere riportato al centro del dibattito attuale la grande “invisibilizzata”: la morte. Da sarda, so che non deve essere stato facile aprirci una finestra sulla tua intimità. E cosa c’è di più intimo del rapporto con la malattia e la preparazione alla fine terrena della propria esistenza?
Hai avuto coraggio Michela a ricordarci che siamo finiti. Non per una fascinazione un po’ macabra nei confronti della morte. Ma poiché l’ha riportata al suo significato autentico di chiave di volta della Vita. A differenza della nascita in cui abbiamo un ruolo passivo – siamo partoriti -, la morte ci appartiene pienamente. Parafrasando Erich Fromm qualcuno dice che “morire è dare alla luce se stessi”. Non possiamo, in genere, scegliere come e quando, però ci è dato decidere come presentarci a quell’appuntamento inderogabile. Se, cioè, farlo da vivi, con la consapevolezza di avere utilizzato al meglio i nostri giorni e le nostre notti per essere pienamente umani. Donne e uomini radicati in questo tempo e in questo spazio con lo sguardo, però, aperto sull’altrove per non esserne imprigionati. Donne e uomini in relazione con la Terra e il Cielo. Non parlo di “Aldilà”, beninteso. Ma di quel Cielo sotto il quale ci troviamo tutti, credenti e no, cercatori di vie di fuga dal nostro solipsistico io. Qualcuno e qualcuna, poi, per strada scopre di essere stato trovato da Dio ma non accade a comando e non si tratta di un obbligo.
Parlare di morte non è “roba da persone di fede” o, peggio, “da cattolici”. Parlare di morte significa parlare di Vita. Per viverla da viventi. E ritrovare quel filo invisibile di desideri, sogni, speranze, che ci lega gli uni agli altri. Pregherò perché lo Spirito continui a soffiare su di Te. E susciti nuovi gesti di coraggio come il tuo per abbattere il muro d’oblio che abbiamo eretto intorno alla fine.