Analisi. Capitalismo e islam, i rischi per le monarchie del Golfo
L’esempio forse più significativo di questa crisi la si trova ad Abu Dhabi, l’Emirato che, salito per qualche ora agli scenari mediatici mondiali per la visita di papa Francesco nel dicembre scorso, cerca di uscire dalla gabbia di una identità solo islamica Il museo è il risultato di una visione positivista, e l’emiro non se n’è accorto. La modernità atea tanto temuta dai musulmani qui entra dalla porta d’onore Il museo del Louvre di Abu Dhabi, opera dell’architetto Jean Nouvel
Recentemente il Congresso statunitense ha censurato il presidente Trump per l’impegno Usa nella guerra in Yemen, a fianco di un’alleanza capeggiata da sauditi ed emiratini, alleanza che non riesce a vincere una 'piccola guerra' nonostante l’enorme impegno militare dei membri della coalizione, soprattutto per il fatto che gli eserciti sul campo sono composti in massima parte di mercenari, che non vogliono rischiare più di tanto la pelle e che vivono della guerra. Sono molti i segnali della crisi profonda che attraversa le monarchie del Golfo persico. A ltri indicatori vengono al solito dal rispetto dei diritti umani (si annota l’orrore di 47 condanne a morte pubbliche eseguite in diverse piazze dell’Arabia Saudita), e dalla convulsa ricerca di un nuovo equilibrio economico che possa permettere alle monarchie di sopravvivere alla crisi del petrolio. In Arabia Saudita, ad esempio, la legge di bilancio 2019 varata il 18 dicembre scorso, è di natura espansiva, con un ulteriore aumento della spesa pubblica (+7%), per sostenere il grande progetto 'Vision 2030' di Muhammad Bin Salman, principe ereditario in crisi dopo il caso Kashoggi e altre disavventure. Nella stessa legge si stima un gettito fiscale in aumento del 9% rispetto al 2018, con un aumento analogo delle entrate erariali non-oil, dato basato in gran parte sulla tassazione della forza lavoro straniera (12,6 milioni su 33,4 milioni di abitanti). Una legge estremamente ottimista, ma che in realtà non viene seguita dai fatti.
Ma la questione economica non è la sola, e non appare nemmeno il più importante indice della crisi della regione, che riveste un carattere essenzialmente culturale. Recentemente Jean Nouvel ha inaugurato a Doha un altro dei suoi straordinari musei, questa volta a forma di rosa del deserto. Un museo che vuole cercare di far rivivere la cultura locale beduina. «Mentre viaggiamo verso il futuro, sentiamo la necessità di concentrarci sulla nostra identità», ha spiegato Sheikha Al Mayassa bin Hamad bin Khalifa Al Thani, presidente di tutti i musei del Qatar. Il problema culturale di tutte le monarchie della penisola arabica (con la sola eccezione dell’Oman) sta proprio nella debolissima dimensione i- dentitaria delle popolazioni, visto tra l’altro che circa metà della popolazione complessiva è composta di lavoratori stranieri, con picchi negli Emirati e nel Qatar, dove la cifra supera il 90%. L’ esempio forse più significativo di questa crisi culturale e identitaria la si trova ad Abu Dhabi, l’Emirato che, salito per qualche ora agli scenari mediatici mondiali per la visita di papa Francesco nel dicembre scorso, cerca di uscire dalla gabbia di una identità solo islamica per cercare una nuova 'identità meticcia' col soccorso del capitalismo. Se in Cina i governi sono riusciti nell’impresa di coniugare capitalismo e 'centralismo democratico', qui le monarchie cercano di coniugare capitalismo e 'centralismo islamico', ma con risultati molto meno esaltanti. «Il paradosso dell’i- slamizzazione è che ha profondamente depoliticizzato l’Islam», sottolinea il noto islamologo Olivier Roy.
Abu Dhabi ha una storia breve, come la gemella Dubai: qui fino agli anni Cinquanta non c’erano che poche case di fango e tante tende. Ancora nel 1948, l’esploratore britannico Wilfred Thesiger, che per primo riuscì a traversare l’Empty Quarter, il deserto 'più desertico' che esista al mondo, arrivò ad Abu Dhabi dove incontrò un fanatismo religioso wahhabita inquietante, nutritosi agli insegnamenti di una setta sunnita ancora più integralista dei wahhabiti, gli akhwan, poi scacciati da re Saud: «L’odio che vi incontrai – scrisse nel bellissimo Sabbie arabe – fu un’esperienza inquietante. Era laido come sempre è l’odio, e a me, abituato alla tolleranza religiosa, appariva senza senso». Eppure anche in quell’occasione Thesiger non cessò di porsi le questioni della laicità all’europea: «Ma mi chiedevo se non fosse preferibile al nuovo odio, basato sulle distinzioni di colore, di nazionalità e di classe, prodotto dalla nostra civiltà, che sta sconvolgendo le parti più civilizzate del Medio Oriente». Già allora si coglieva questa tensione tra islam e capitalismo. Pochi anni dopo la scrittura di queste righe arrivò lo sfruttamento su scala industriale del petrolio e la diffusione dell’aria condizionata, la macchina che cambiò definitivamente la vita di gente che viveva in ambienti torridi per buona parte dell’anno.
Abu Dhabi, rispetto alla più nota Dubai – fake city per eccellenza, enorme concentrato di grattacieli, mall e autostrade – ha una 'moderazione politica' particolare. Ed è meno presuntuosa della 'sorella' Dubai. Meno glamour, e pure meno alta. La dimensione umana è stata preservata in modo più limpido di quanto non sia avvenuto a Dubai. Anche se il regime è ferreo, anche se il 92 per cento della popolazione è straniero, anche se il consumismo qui è di casa come a Dubai, anche se c’è poca cultura e sostanzialmente importata, anche se la polizia è ovunque, anche se... C’è un altro punto interrogativo, poco appariscente ma assai più profondo. Lo esemplifica una visita al Louvre locale, l’altra prodezza architettonica realizzata da Jean Nouvel, nell’isola di Sa’diyyat: 600 milioni di euro per la costruzione, 525 milioni di dollari perché Abu Dhabi sia associata al nome Louvre, e altri 747 milioni di dollari saranno pagati in cambio di prestiti di opere d’arte, mostre speciali e consigli gestionali. Il risultato lascia a bocca aperta per la bellezza architettonica e per l’integrazione nell’ambiente, un po’ meno per l’arabicità del progetto. È la concezione stessa del museo che fa dubitare della bontà del disegno identitario complessivo e del 'tranello' teso all’emiro. I l museo, infatti, è il risultato di una visione sostanzialmente positivista, e l’emiro non se n’è accorto.
La modernità atea tanto temuta dai musulmani qui entra dalla porta d’onore. È scritto nella vision del museo: «Cosa significa essere 'universale'? Per il Louvre di Abu Dhabi significa concentrarsi su ciò che ci unisce: la storia della creatività umana che trascende le culture, le civiltà, le epoche e la geografia». Affascinante. Ma alla fine resta l’impressione che la visita sia un’esperienza estetica, anzi estetizzante e perciò ideologica. Ogni sala è una ricerca di perfezione dello spazio e dell’inquadratura, con una sola vittima: il tempo. Qui lo spazio appare superiore al tempo, in una sincronicità assai spinta che riduce le epoche storiche a francobolli e fa pensare che le varie civiltà siano tutte omologabili. E così le religioni. Il cortocircuito del tempo è ordito a scapito della Storia. I n tutto ciò stupisce che un Paese musulmano abbia accettato una tale commistione di relativismi, in cui col solo sacrificio della croce cristiana (c’è tuttavia un crocifisso senza supporto) e della nudità (non si incontrano statue svestite o quadri imbarazzanti) si passa da Krishna a Gesù a Muhammad senza soluzione di continuità. Di nuovo, imbarazzante non per noi europei ormai abituati al post-modernismo e al postcristianesimo, quanto per chi persegue la shari’a wahhabita. Abu Dhabi è oggi il regno del selfie e dell’arte che si riduce a consumismo. Nulla di islamico. E l’emiro non se ne è accorto. 'L’infelicità araba' continua, come avrebbe costatato Samir Kassir.