L'intervista. Red Canzian: «La mia fortuna? Sono nato povero in una villa di lusso»
«La mia fortuna? Essere nato tanto povero da crescere in una magnifica villa veneta del Settecento». Ama i paradossi, Red Canzian, uno dei quattro storici Pooh, il complesso più amato e longevo della musica pop-rock italiana. O forse i paradossi lo hanno sempre aspettato al varco, tra continue cadute e straordinarie risalite. «Sono nato a Quinto di Treviso nella grande villa che era stata data alla popolazione più povera del paese, di cui ero nobile esponente – ironizza –. Per duemila lire al mese avevamo diritto a due stanze: la cucina in cui si viveva, e una camera dove si dormiva e si nasceva. Sono nato lì nel 1951 con l’aiuto di una levatrice, così eravamo in quattro, papà, mamma, la mia sorellina maggiore e io».
A undici chilometri da quella villa impressa a fuoco nella sua memoria, c’è la villa del Seicento che ha acquistato tanti anni dopo, anche questa adagiata sulle rive del fiume Sile nella placida campagna veneta. Al nostro arrivo la cancellata si apre come un sipario e il viale alberato ci conduce alla “barchessa”, l’edificio che i nobili adibivano a deposito dei carri e degli attrezzi agricoli, in cui oggi Canzian vive con la moglie Bea: «Una barchessa strana – sorride –, ornata di stucchi ed elementi architettonici, forse era una foresteria per gli ospiti». Il camino incorniciato da sculture in legno riscalda a fuoco vivo la spaziosa cucina in cui ci accoglie. Sul grande tavolo la spesa che ha appena fatto con Bea al supermarket del paese. «Comprai questa villa per illudermi che fosse quella della mia infanzia e risentire la voce di mio padre, il gigante buono che si spaccava la schiena per farci vivere felici. Perché quando sei piccolo la povertà non la senti, senti solo l’amore che hai intorno e il bello che hai sotto gli occhi». Alle pareti i suggestivi quadri sono opere sue, tramonti sul fiume, canneti, mulini, “dipingo per ritrovare quei tempi, respirare l’odore della palude che viene dal Sile, rivivere il giorno in cui mio padre mi ci portò la prima volta… gli odori sono una macchina del tempo. Il mio talento artistico nasce in modo assolutamente inconsueto e non per merito mio, ma di quella povertà».
Red Canzian davanti al camino nella grande cucina della villa veneta a Silea - L.B.
Cos’ha a che fare la povertà con la sua carriera artistica?
Nella villa c’erano tante famiglie, ognuna con due stanze, e a noi era toccato il terzo piano, che si apriva su un salone centrale affrescato: c’erano le scene di San Giorgio che trafiggeva il drago, cavalieri con mantelli, cavalli bianchi. Stavo ore naso in su a fantasticare e presto ho cominciato a disegnare per imitazione… Insomma, la mia passione per l’arte è iniziata con la pittura, la musica è arrivata molto dopo. Purtroppo quando avevo 8 anni siamo stati tutti sfrattati e la villa è stata abbattuta insieme al parco secolare per far posto a orribili casette, ma ormai aveva tracciato il mio destino.
La famiglia dunque è stata centrale nella sua formazione.
Mio papà Giovanni ha fatto di tutto, dal boxeur al camionista al minatore, era a Marcinelle fino a un mese prima della tragedia (nel 1956 vi morirono 262 minatori, di cui 136 italiani, ndr). Era spesso lontano, «vao in bass’Italia» diceva quando andava nel Meridione, ma quando tornava facevamo cose bellissime, lo aiutavo a lavare il camion. Quello che impari nei primi anni della vita determina il tuo modo di essere e, senza alcuna retorica, l’insegnamento più grande di mio padre è il sorriso di fronte ai problemi. Mi chiedono perché io sorrida sempre, allora rispondo che se lo faceva lui con la sua vita dura – che gli hanno tolto un rene e io a vent’anni, con questa faccia, diventavo il capofamiglia –, che diritto ho di essere triste? Mi diceva «varda che ghe xe pi giorni che luganeghe», ci sono più anni da vivere che salsicce, ovvero non scialacquare, ma anche «testa bassa, credici e non fermarti». Quando nel 1973 a 22 anni mi hanno chiamato i Pooh mia mamma era disperata, partiva il suo bambino, papà invece mi disse «vai, coreghe drio al to sogno». D’altronde mi ero diplomato geometra solo perché era l’unica scuola in cui potevo disegnare, avrei voluto fare l’Accademia di Belle arti ma studiare a Venezia costava. Mio papà con tenerezza mi aveva regalato anche i bigliettini da visita, “Geometra Bruno Canzian”… Poi però mia mamma Caterina diventerà la mia più grande fan, in prima fila ai concerti diceva ai vicini «queo el xe me fiòl». Se a scuola ero il bambino più elegante è perché mi cuciva tutto a mano, ha sempre avuto una grande dignità. Si è spenta a 98 anni nel 2018, era l’ultima mamma dei Pooh.
Red Canzian, dal 1973 bassista dei Pooh - Archivio Canzian
Come arriva poi alla musica e al “miracolo” dei Pooh?
Era il 1964 e il primo anno che andavamo al mare. Le prime vacanze! Affittammo una stanza per tutti e quattro presso una famiglia di Jesolo con il gas in corridoio, c’erano altre famiglie e chi prima arrivava cucinava, eppure era bellissimo. In spiaggia a un certo punto sentimmo un suono incredibile, era arrivato il primo jukebox. Abituati allo sfrigolio delle radio che trasmettevano con voce nasale “Mamma son tanto felice…”, ascoltavamo questo aggeggio con i bassi e una voce calda che cantava “Love me tender, love me sweet”, ho ancora la pelle d’oca. Sono corso a vedere cosa fosse, con 20 lire potevi ascoltare la canzone che sceglievi tu ed Elvis Presley mi ha spalancato un mondo: se questa è la musica, mi sono detto, voglio fare questo. Poi sono arrivati i Beatles e come tutti i ragazzini di quell’epoca ho sognato una chitarra elettrica.
Ve la potevate permettere?
Per mesi l’ho guardata nella vetrina di Fusco, a Treviso, era una Framus, la contemplavo con le mani sui vetri ma con i soldi non ci arrivavamo, quindi mio padre mi comprò una chitarra acustica. Costava 5.000 lire e nonostante questo chiese se poteva pagarla «un fiantìn al mese», purtroppo andava così, però le cose le apprezzi anche di più, in questo modo. Ricordo il primo accordo: suona! L’estate del 1966 andava forte “La bambolina”, una canzone basata sugli unici tre accordi che conoscevo, la suonavo sotto l’ombrellone e le ragazzine impazzivano. Lì ho capito che cantare dal vivo davanti alla gente era la cosa che volevo fare nella vita, mi sono iscritto a tutti i festival del Veneto per cantanti, perché non ero ancora in grado di suonare, e a 16 anni cantando "Yesterday" dei Beatles ne ho vinto uno importante organizzato dalle cantine sociali di Conegliano Veneto, presentato da Pippo Baudo. Senza maestri, da autodidatta, poi ho imparato a suonare, ho messo su il primo gruppo, il secondo, e sono arrivati i Pooh.
Sembra una favola a lieto fine. Com’è potuto accadere?
Nel 1973 il bassista Riccardo Fogli lasciò i Pooh per amore di Nicoletta Strambelli, in arte Patty Pravo, che non smetterò mai di benedire: per sostituirlo, nella lavanderia di un albergo di Roncobilaccio fecero provini a un centinaio di persone, ma non trovavano quello giusto né come bassista, né come voce, né come carattere, poi quando stavano per gettare la spugna presero me. Il bello è che non ero un bassista, ero chitarrista, ma sono convinto che la decisione derivò da un incontro di anime e di intenti, eravamo sulla stessa onda.
E qual era quella “stessa onda”? Chi sono i Pooh? Perché dopo 60 anni restano in testa alle classifiche?
I Pooh sono dei bravi ragazzi, primo, delle persone per bene. Non si sono mai drogati, non so se qualcuno si sia mai fatto una canna in amicizia bevendo una birra ma posso giurare che non l’ho mai visto. Secondo, nel 1973 quando sono entrato io i Pooh avevano già il fiscalista, da sempre hanno voluto essere in regola con le tasse. Ricordo le discussioni in certe zone quando non volevano sentir parlare di Iva e di fatture. Terzo, abbiamo un’impronta musicale molto melodica, molto italiana, direi pucciniana, però allo stesso tempo abbiamo un’anima rock giovanile che continua a vestire la nostra musica e ha fatto la differenza con gli altri gruppi, partiti insieme a noi e poi spariti: siamo rimasti sempre curiosi, non ci siamo fermati a goderci il successo, andavamo in America a scoprire il nuovo.
E Canzian in particolare chi è?
Un curioso perenne, grazie a Dio non ho mai perso quel senso della meraviglia che provo per ogni cosa che mi capita, mi piace aprire le porte a quello che non conosco. Credo di aver vinto tante volte nella vita non grazie alle mie capacità, ma al mio modo di appassionarmi e intendere l’esistenza. E qui torniamo agli esempi di mio padre.
Con 100 milioni di dischi venduti, 53 album, 15 dischi d’oro e 30 di platino, 63 tour tra stadi e teatri internazionali, come si resta persone “normali” com’è lei?
Mi ha appena fatto il più grande complimento. In realtà è un lavoro darti delle arie se non sei borioso di natura, ti devi alzare la mattina e dire «ok, adesso tratto male qualcuno, guardo gli altri dall’alto al basso», se non ce l’hai dentro non ti viene, ma conosco gente che in questo ha un talento naturale… Tanti colleghi della mia età hanno avuto un successo straordinario ma sono rimasti persone buonissime e semplici, il problema riguarda più i ragazzini perché li hanno abituati male: quando metti le guardie del corpo, l’autista e il personal manager a un ragazzetto che ha fatto un disco, poi questo pensa che la vita funzioni così e perde la misura. Io ho sempre guidato la macchina, non ho mai avuto guardie del corpo e come vede vado al supermercato con Bea.
Sua madre temeva che il successo la cambiasse. In effetti la metamorfosi a volte è rapida, penso ai Måneskin, dal talento indiscutibile ma molto cambiati.
Lì entri in un meccanismo che non è più governabile dall’artista, una grande macchina anche economica. Il mondo è cambiato dai nostri tempi, però so per certo da amici comuni che i Måneskin sono bravi ragazzi, non si drogano, più di una volta finito il concerto hanno preso un aereo privato per andare a casa dai genitori anche solo un giorno. Ti fa capire che c’è del buono. Io li ho conosciuti quando suonavano per strada a piazza del Popolo a Roma, gli ho anche allungato dieci euro, erano talmente bravi che non potevi non notarli. Ora la mise è estrema ma in fondo giocano, gli è stato richiesto “qualcos’altro” perché sono passati dalla strada ad aprire il concerto dei Rolling Stones, un salto talmente grande che ci devi stare, ma hanno una bella personalità e non si faranno fregare. Se dovessi dargli un consiglio? Di rimanere se stessi, non farsi troppo prendere dallo showbiz.
Per tre volte lei ha rischiato di morire. Possiamo parlarne?
Fa parte della vita, dobbiamo parlarne. Il 25 febbraio del 2015 a Roma mi alzai per andare in tivù ma sentii dentro un botto e poi un dolore mostruoso che è quello della morte, non puoi concepire un dolore così. Mi era scoppiata l’aorta: il 40% muore prima di arrivare in ospedale, il 57% muore comunque entro due giorni, io faccio parte della minima percentuale rimasta. Il mio assistente, che era pure medico, mi caricò su un taxi senza attendere l’ambulanza, a 300 metri da noi c’era un piccolo ospedale. Ero rintronato ma sentii i medici, «ahò, non è che ce more pure questo come Pino Daniele?». Pino era morto un mese prima, non mi fece piacere... Ero così grave che mi impacchettarono e via verso l’European Hospital. Sulla porta i barellieri incontrarono il mio salvatore che correva a prendere l’aereo per la Lituania dove stava adottando due figli, «c’è un pù da salvare!», gli gridarono, ero un Pooh da salvare. Così il professor Ruggero De Paulis è tornato dentro e con una protesi brevettata da lui mi ha salvato la vita. Qualche settimana dopo avrei avuto un concerto cui tenevo tantissimo a Bolzano, la città di Bea, quindi ho cominciato a salire le scale tutto il giorno e ad esercitarmi con la logopedista, ma la voce era sparita completamente perché ero stato a lungo
intubato, ero disperato. Finché una notte credendo di bisbigliare ho fatto tremare la stanza: la voce era tornata, ho pianto! Il 18 aprile ero sul palco a Bolzano con ancora un po’ di spinotti attaccati, i medici tutti in prima fila con facce da funerale. Alla fine sono venuti in camerino e sotto i cappotti avevano siringhe, aghi, ossigeno, abbiamo riso tanto. Il momento più bello è stato al primo acuto: ho visto nel pubblico Bea e mia figlia Chiara che piangevano, come pure Phil, il mio batterista, che è figlio di Bea e quindi figlio anche mio. E questa l’abbiamo superata…
Red Canzian con la moglie Bea e i loro figli Chiara e Phil - Archivio Canzian
La seconda volta che ha sfidato la morte?
Tre anni dopo, nel 2018, la Tac di controllo all’aorta evidenziò una macchia nel polmone: tumore maligno. Il 12 aprile a Milano il professor Ugo Pastorino mi tolse un bel pezzo di polmone, ma un mese dopo doveva partire la mia tournée, ho fatto le prove con i drenaggi attaccati. La sera del concerto all’Arcimboldi in prima fila c’era Pastorino incredulo, non capiva come potessi avere tanto fiato: la mattina dopo ha voluto farmi una radiografia, «i polmoni non ricrescono – esclamava –, quante volte hai respirato, che li hai talmente allargati da riempire il vuoto?». Il fatto è che cantare ti costringe a una super respirazione.
E la terza morte scampata?
Da tre anni lavoravo al musical “Casanova” e il 4 gennaio 2022 sarebbero cominciate le prove. Ma proprio il 4 mattina sono caduto a terra come morto: infezione da stafilococco aureo, entrato da una scheggia mentre piallavo un legno e annidato proprio nell’aorta. Mentre io ero gravissimo in ospedale a Treviso, a San Donà Bea coordinava al mio posto le prove del musical e i nostri due figli hanno portato avanti il tutto. Una sfortuna tre volte così puntuale non l’ho mai vista, ma qui interviene il famoso concetto di come uno affronta la vita. Ho sempre pensato che un affarino microscopico come un batterio non poteva stroncare me, con l’illusione di immortalità che solo i pazzi hanno, perché poi non va sempre così…
Lei è un credente? O un uomo alla ricerca, ancora seduto in sala d’attesa?
Come tutti i vigliacchi prego quando ho bisogno, ma credo assolutamente in un Dio sopra di noi e la mia gratitudine per questa vita meravigliosa è il mio modo di ringraziarlo. Ho pregato tanto nel momento terribile della paura, mi rannicchiavo in posizione fetale e mi concentravo su me stesso, gli chiedevo di guarire il più presto possibile, volevo vivere, avevo e ho ancora tanta voglia di fare “cose”. Ho sempre fatto di tutto, non perché la musica non mi basti o per mettermi in luce, ma perché dentro ho un mare da esprimere e anche questo è un modo di guardare al Cielo.
Che cosa non le piace nel mondo attuale?
La droga, la violenza sulle donne, la litigiosità, l’ossessione per l’immagine… Il web è stata una invenzione meravigliosa e non ho paura dell’intelligenza artificiale, che anzi ci aiuterà a trovare soluzioni a tante malattie e brutture del mondo, ma penso che i social siano un’invasione pericolosa nel cuore di adolescenti inermi, così fragili da cadere nei cattivi insegnamenti. Oggi viviamo nella dittatura dell’immagine, l’apparenza è diventata un idolo, fa impressione vedere ragazzine su Tik Tok che si esibiscono senza alcuna vergogna, bambine che si scattano selfie imbarazzanti: perché, poi? Cosa sperano? È un inganno che la nostra società ha teso ai ragazzi. Noi sognavamo di fare il medico e l’archeologo, oggi sognano di fare gli influencer, gli imprenditori del nulla… non voglio scagliare un’ulteriore pietra contro la categoria, dico però che non è questo l’esempio.
Anche certa beneficenza rischia così di diventare business.
Appena finita la guerra in Jugoslavia, noi Pooh con l’associazione “Rock no war” abbiamo portato in Albania, Kosovo e Serbia dodici parchi gioco, ma siamo andati noi personalmente a montarli, volando con l’elicottero aperto mentre sotto ancora sparavano. Poi in Madagascar abbiamo costruito una scuola professionale dentro un lebbrosario, sempre recandoci sul posto perché non basta metterci la faccia, devi verificare da vicino. Ricordo un bimbo che arrivava dalla foresta con una carriola e dentro la nonna senza i piedi, smangiati dalla lebbra. E tanti bambini attorno a noi con le manine aperte per ricevere la pasticca: oggi dalla lebbra si guarisce ma ci vuole tempo e, dopo anni nel lebbrosario se non sai fare un mestiere sei finito, per questo la scelta di una scuola professionale. Anche in Sri Lanka abbiamo eretto una scuola per duecento bambini sordo-ciechi con suor Cidimma, una suora dall’energia inesauribile con cui io e Bea siamo sempre in contatto. In Nicaragua invece abbiamo costruito un Conservatorio di musica dotato di tutti gli strumenti: era una meraviglia vedere quei ragazzini con un senso del ritmo incredibile, strappati dalle discariche in cui si contendevano con i cani la carne marcia e i cumuli di immondizie. Dopo che hai visto con i tuoi occhi, come puoi guadagnarci sopra la tua percentuale? Ai concerti sono io a tenere il discorso ai nostri fan: ragazzi, dico, mentre noi stiamo bene e ci divertiamo, da un’altra parte del mondo c’è chi non se lo sogna nemmeno, vi va di fare qualcosa con noi? A ogni tournée abbiamo raccolto 200mila euro: i fan sono i nostri migliori amici.
"Con suor Cidimma in Sri Lanka abbiamo eretto una scuola per duecento bambini sordo-ciechi" - Archivio Canzian
E nella sua vita chi è il migliore amico?
Non ne ho uno solo, ma nemmeno tanti, sarebbe un’ipocrisia. Ho imparato col tempo a volermi bene e a rispettare me stesso, quindi a non accettare che sul mio tram salisse gente che non volevo, e alla fine selezionando sono rimaste cinque o sei persone con cui sto molto bene. Certamente Stefano D’Orazio, morto nel 2020 con il Covid, era il Pooh cui ero più legato, l’amico cui trent’anni fa ho confessato quello che mi stava accadendo, quando io e Bea avevamo deciso di separarci dai nostri reciproci compagni, pur essendo tutti e quattro amici… Una sera, appoggiato alla macchina fuori dalla casa di Roby Facchinetti, gli ho raccontato l’amore invincibile, la lotta interiore, il senso di colpa, e la mattina dopo è arrivato con il testo di “Stare senza di te”, la canzone che fotografa esattamente quel momento. È stato il biografo della nostra vita coniugale perché poi ha scritto canzoni famose come “Cercando di te”, “Stai con me”, “Io ti aspetterò”, tutte legate alla nostra storia.
In definitiva, di Red Canzian che cosa le piace?
Indubbiamente ho 72 anni, ma il mio modo di vivere contravviene ad ogni regola anagrafica, sono rimasto un bambino che a volte si lascia fregare dalla fiducia e dagli entusiasmi, ma che non ha un altro modo di vivere. Io faccio progetti da qui a vent’anni, so bene che non ci sarò, però ragiono come se questo problema riguardasse un altro ed è la mia fortuna: nella vita non ho mai provato la noia, non so proprio cosa sia, al mattino ho bisogno di alzarmi perché ho una montagna di cose belle da fare, dipingo, scolpisco il legno, scrivo libri, ne ho appena finito uno che uscirà a ottobre uno. Il tema? Tutte le riflessioni che questa intervista mi sta rubando!
Red Canzian al lavoro al suo ultimo libro, che uscirà a ottobre - L.B.