Opinioni

Il dibattito. Cancel culture, se la censura colpisce anche l'Odissea. E il latino...

Andrea Lavazza mercoledì 1 settembre 2021

L'Università di Princeton, nello Stato di New York

I fenomeni recenti raggruppati sotto la denominazione di cancel culture (qualcosa di simile a "censura culturale") possono essere giudicati da due prospettive. L’insistere sulla correttezza politica in tema di razza e di genere è un modo di evitare discriminazioni tuttora esistenti e di riequilibrare antiche e pesanti disparità in campi di studio fino a pochi decenni fa appannaggio quasi esclusivo di bianchi maschi. Ma giudicare le opere del passato solo per appartenenza etnica e sesso degli autori o per una sensibilità che inevitabilmente era diversa da quella attuale rischia di privarci di un patrimonio decisivo su cui si è edificata la nostra storia. E ciò avviene per la rivalsa attiva di una minoranza combattiva e il conformismo acquiescente di molti altri, probabilmente stretti fra un generico senso di colpa occidentale e il timore di essere emarginati dalla tendenza predominante.

Gli esempi della cancel culture si vanno moltiplicando nel mondo anglosassone, ma anche l’Europa continentale non è esente dalla tendenza. Ha fatto discutere di recente l’iniziativa dell’Università di Princeton, tra le più prestigiose a livello mondiale, di eliminare l’obbligo dello studio di greco e latino nel curriculum di studio per la laurea in Lettere antiche. I testi si potranno leggere in traduzione. La scelta è dovuta al razzismo sistematico che starebbe dietro il Dipartimento di studi classici, «inospitale per studenti neri e di colore». Decisione più drastica è stata presa alla Howard University, ateneo di Washington dalla fondazione, nel 1867, aperto senza restrizione agli studenti afroamericani, dove hanno studiato la scrittrice Toni Morrison e la vicepresidente Kamala Harris. Qui le Lettere antiche sono state semplicemente abolite, ufficialmente per motivi di bilancio. Difficile credere che siano state soltanto considerazioni economiche.


A Princeton non c’è più obbligo
di studiare greco e latino per Lettere antiche
«Razzismo sistematico nel Dipartimento»
L’Howard University ha cancellato il corso di laurea
Licei vietano anche l’«Odissea»

​Un liceo del Massachusetts ha bandito l’Odissea dal programma in quanto irrispettosa delle donne e la docente che ha promosso la campagna si è vantata del risultato sui social media. Le reazioni comunque non sono mancate. L’autorevole rivista The Atlantic ha criticato la mossa di Princeton, argomentando che essa amplificherà il razzismo invece di ridurlo. Alla fine, i laureati saranno meno competitivi dei colleghi che hanno continuato a studiare i famigerati testi. E si perderanno le radici di un pensiero che ha prodotto anche i migliori progressi proprio sul fronte dei diritti umani, figli di una complessa genealogia che ha nel cristianesimo uno dei suoi snodi principali.

Un effetto paradossale è che si viene a creare una doppia frattura nella società e nell’accademia. Se una parte del Paese ha già un atteggiamento di diffidenza, ricambiato (si ricordi Hillary Clinton), verso le élites, adesso una parte, quella più moderata (per così dire), accusa i nuovi censori di atteggiamenti anti-intellettualistici. Questi ultimi, agli occhi dell’America profonda (che ha votato per Trump), sono invece proprio gli "intellettuali" più lontani dalla realtà, accusati di disprezzare la storia e le tradizioni nazionali allo scopo di imporre un nuovo pensiero unico che faccia tabula rasa del passato. A cadere, però, non sono soltanto autori lontani e le statue di schiavisti o esponenti del patriarcato non paritario (compresi Cristoforo Colombo e, in Italia, Indro Montanelli).

Sotto la scure della cancel culture finiscono persino libri in uscita, per la rivolta degli stessi dipendenti delle case editrici contro i manoscritti in via di pubblicazione. È accaduto di recente al regista Woody Allen, sospettato di molestie alla figlia adottiva ma scagionato dall’accusa. All’annuncio della pubblicazione della sua autobiografia da parte di Hachette, il figlio Ronan Farrow ha guidato una mobilitazione di autori e dipendenti del gruppo negli Stati Uniti, culminata con uno sciopero che ha indotto il colosso a stracciare il contratto. L’opera è uscita poi da Arcade e in Italia è stata tradotta dalla Nave di Teseo.

Una rivolta interna ha segnato anche l’annuncio delle memorie dell’ex vicepresidente Mike Pence per i tipi di Simon&Schuster. Ma i vertici dell’azienda hanno finora resistito alle contestazioni interne ed esterne legate a presunte partigianeria e intolleranza sia del racconto sia dello stesso numero due della Casa Bianca. Destino diverso per il controverso giornalista filo-trumpiano Milo Yiannopoulos, che già nel 2017 si era visto disdire dallo stesso Simon&Schuster l’accordo per un volume dopo dichiarazioni provocatorie su pedofilia, femminismo e islam. In Francia nel mirino sono finiti autori che in passato erano portati in palmo di mano dai progressisti per la loro capacità di rompere i tabù, a partire dalla sessualità non convenzionale. Oggi invece, sotto la spinta del movimento #metoo (sacrosanto nel denunciare le molestie sistematiche pur macchiato da alcuni eccessi), scrittori come Gabriel Matzneff o Tony Duvert e le loro opere sono diventati impresentabili. I libri escono comunque (anche quello di Yiannopoulos, con successo), gli editori da sempre fanno selezione e non sempre nel migliore dei modi, ha scritto il filosofo Neil Levy ribattendo, con moderazione, ai timori verso l’ondata di no-platforming, ovvero la negazione a certi oratori del podio da cui fare il proprio discorso. Il pensiero resta libero, non l’accesso a certi canali di diffusione.

Non sempre va così, tuttavia, se la cancel culture si insinua felpatamente in tanti ambiti. Il mercato libero delle idee sembra un ottimo antidoto a tutti gli eccessi, che sul medio periodo si stemperano e lasciano spazi a mutati equilibri (non sempre per il meglio, ma non necessariamente per il peggio). Il rischio può nascere quando molte università, case editrici e media mainstream si adeguino per moda, opportunismo o paura, lasciando poco spazio al pluralismo e al dissenso. La corsa intollerante verso la correttezza e l’aggiornamento ai valori contemporanei può avere come esito un giacobinismo che non trova requie e finisce con il corrodere tutto.

Anche chi scrive ne ha fatto una minima esperienza, si parva licet cum magnis comparare (ma il latino sarebbe meglio evitarlo). Invitato a scrivere un capitolo in una raccolta su neurotecnologie e libertà di espressione, ho ricevuto questo commento dall’editore, importante marchio accademico inglese ora in un gruppo a proprietà tedesca: «Ci preoccupa un passaggio. L’autore descrive una scena del "Comus" di Milton che riguarda un’aggressione sessuale commessa contro una donna e temiamo che il linguaggio usato sia obsoleto e non la inquadri con sufficiente sensibilità. Comprendiamo che il poema stesso esprime una prospettiva antiquata sulla violenza sessuale, ma riteniamo che l’autore potrebbe fare un lavoro migliore nel presentare il brano in un modo che sia adeguato alla sensibilità contemporanea su questo tema».

I curatori del volume (uno studioso tedesco e uno americano) sono rimasti perplessi: a parte l’ironia della censura in un libro sulla libertà di espressione, l’esempio è mirato a indicare la forza d’animo della protagonista, che mostra come la nostra vita interiore è preservata pure quando il corpo è attaccato, mentre le neurotecnologie sembrano potere superare anche l’ultimo confine. E poi John Milton sta alla letteratura inglese come Manzoni a quella italiana. Ma alla fine l’analogia non era centrale e aprire un contenzioso avrebbe ritardato l’uscita, danneggiando gli altri autori. Così ho tagliato un po’ di righe, sfumando sulla vicenda. Sono stato complice della cancel culture? Per così poco, forse no. O forse sì.