La notizia paradossalmente positiva che è arrivata in questi giorni assieme a quella della settima flessione consecutiva del Pil del nostro Paese (e alla fatica del Governo Letta per scovare le risorse indispensabili per dare motore e ammortizzatori alla 'ripresa' di imprese e famiglie) è che la crisi non è più solo circoscritta all’Area Sud dell’euro ma colpisce in maniera significativa anche l’Area Nord, con Germania, Olanda e Francia in arretramento o già in recessione rispetto all’anno precedente. Perché una notizia negativa si converte, di fatto, nel suo contrario? Perché questo dato è decisivo e dovrebbe finalmente spingere la classe dirigente tedesca, Angela Merkel in testa, a mettersi alle spalle l’incubo della Repubblica di Weimar per capire che stiamo vivendo una stagione completamente diversa. In quest’epoca di globalizzazione dei mercati, i Paesi emergenti convergono lentamente verso i Paesi ricchi mettendoli in crisi grazie a costi del lavoro fino a 20-30 volte più bassi.I Paesi ricchi competono cercando di puntare su fattori non delocalizzabili (qualità, ricerca, beni e servizi legati al territorio), ma sono anche tentati di inseguire al ribasso il costo del lavoro dei Paesi emergenti. La progressiva perdita di potere d’acquisto dei lavoratori che ne consegue rende molto difficile soddisfare l’imperativo della crescita. Si può consumare di più guadagnando di meno solo facendo ricorso al debito, pubblico o privato. E nessuno sa meglio di noi italiani che la crescita del debito pubblico limita l’utilizzo delle politiche fiscali per cercare di sostenere la domanda interna.Proprio le caratteristiche della globalizzazione aprono, però, la strada a un possibile sostegno alla domanda consentendo l’utilizzo di politiche monetarie più espansive. Il rischio tradizionale di chi 'stampa più moneta' è quello di scatenare l’inflazione, ma nella globalizzazione la concorrenza dei Paesi poveri ed emergenti che producono merci a bassissimo costo del lavoro, mentre crea la possibilità di una spirale al ribasso di prezzi e salari, rende tale pericolo praticamente trascurabile. È per questo motivo che il Giappone ha raddoppiato l’offerta di moneta con una politica aggressiva di acquisto di titoli pubblici e, negli Stati Uniti, la Federal Reserve ha già da tempo adottato una politica monetaria ultraespansiva dandosi l’obiettivo di ridurre la disoccupazione.
Se le politiche monetarie ultraespansive non creano inflazione reale, minacciano però di creare inflazione finanziaria, ovvero nuove 'bolle' speculative alimentate dall’abbondante liquidità in circolazione. È qui è cruciale il compito della Banca Centrale, che può intervenire per curare eventuali patologie, stampando la moneta necessaria per sostituire quella 'distrutta' da intermediari finanziari vittime dell’eventuale crisi. L’ossessione dell’inflazione e l’illusione che sia il rigorismo a essere di per sé espansivo ha finora impedito alla Ue di procedere nella stessa direzione di Giappone e Usa. Nonostante questo, il presidente della Bce, Mario Draghi, ha manovrato con grande abilità sfruttando i pochi margini di manovra disponibili per iniziative 'creative' che hanno aumentato la liquidità a disposizione delle banche.
Ma non basta. Se vogliamo salvare l’euro è necessario cambiare subito. Con una politica monetaria più coraggiosamente espansiva che faccia arrivare moneta nelle tasche dei cittadini e non solo alle banche.
Con un’applicazione estensiva della golden rule (letteralmente 'regola d’oro') che promuova a livello europeo investimenti in infrastrutture e dia sostanza al finanziamento asimmetrico... del Fondo sociale europeo in proporzione all’entità del problema di disoccupazione dei diversi Paesi membri.
Resto, inoltre, dell’avviso che dovremmo liberarci degli orpelli del Fiscal Compact e di ogni regola di equilibrio dei conti che includa voci non completamente controllabili e in balia degli umori dei mercati come quella della spesa per interessi.
Sono altresì necessarie iniziative per superare l’anomalia di una politica monetaria centralizzata che produce costi del credito fortemente differenziati che penalizzano proprio le aree che avrebbero maggiormente bisogno di stimolare credito e investimenti. Su questi punti c’è ormai convergenza quasi unanime se persino Alesina e Giavazzi hanno scritto ieri, sul 'Corriere della Sera', che è opportuno chiedere una deroga alla soglia del 3% per ridurre le tasse e che è necessario far arrivare nuova liquidità che le banche devono prestare alle imprese.
Da un punto di vista più generale è, infine, necessario mettere in moto meccanismi che accelerino la convergenza del costo del lavoro tra aree povere e aree ricche del pianeta valorizzando il contenuto sociale ed ambientale delle filiere produttive. Noi cittadini possiamo dare una grande mano da questo punto di vista se – ripeterlo è utile – impareremo a 'votare col portafoglio'. Scegliendo imprese e prodotti in cui il rispetto della persona e della giustizia è un dato certo e verificabile. Nella globalizzazione che ci rende tutti interdipendenti lavorare per migliorare il benessere degli 'ultimi' non è solo compito dei missionari, ma un’urgenza che ci coinvolge tutti se vogliamo difendere le nostre conquiste di welfare. Tra il convergere, noi, verso il modello del Rana Plaza di Dacca, in Bangladesh, (il palazzo-fabbrica dove sono morte più di 1.000 persone) e il convergere dei lavoratori diseredati dei Paesi poveri verso la faccia migliore e più equa del nostro modello di sviluppo si gioca il futuro.