È entrata nell’uso comune l’idea di cambio di paradigma. L’espressione è stata coniata per indicare un passaggio radicale del modo di affrontare un problema scientifico. In una fase tutti i ricercatori sono concordi su un nucleo di conoscenze e metodi, e lavorano con essi senza scossoni, con piccoli progressi. Quando però emergono una serie di anomalie nella teoria dominante, essa va in crisi e si assiste a una fase rivoluzionaria che conduce al mutamento del paradigma condiviso.Viene in mente questa analogia leggendo l’importante dichiarazione congiunta sulla pace e la tolleranza, stilata da Unione Europea, Organizzazione dei Paesi islamici, Lega Araba e Unione Africana. In essa, l’Europa e le principali aggregazioni politiche del mondo musulmano e di aree in cui esso ha grande peso hanno voluto esprimere solennemente il «profondo rispetto per tutte le religioni» e il rigetto del loro uso strumentale per fomentare odi e divisioni. Nel venerdì che ha visto ancora decine di morti in Pakistan per le proteste contro il film blasfemo su Maometto, un messaggio che cerca di portare moderazione e ragionevolezza in una piazza infiammata dalla rabbia, spontanea e indotta, contro obiettivi occidentali.Il fatto che il testo sia frutto di una trattativa tra diplomatici in prevalenza musulmani e che dia priorità all’esecrazione delle offese all’islam non ne sminuisce il valore. La condanna riguarda anche gli attacchi alle ambasciate e l’invito alla calma è per tutti, mentre si rigetta ogni forma di violenza. L’impressione però è che si sia all’interno di un paradigma consolidato: sulla scena politica internazionale non è più ammesso fomentare pubblicamente l’ostilità; chi lo fa – si pensi a un Ahmadinejad – viene formalmente isolato. Non importa se alle parole poi seguano i fatti – cosa che spesso non avviene –, i documenti finali di ogni vertice o summit si allineano comunque a una serie di auspici su principi generali che nessuno oserebbe contestare.Va sempre ricordato che non è stato facile raggiungere questa situazione: non dobbiamo tornare indietro di molti decenni per trovare bellicosi pronunciamenti di una cancelleria contro l’altra. L’aver espunto quel tipo di linguaggio è stata una vera rivoluzione.C’è un altro paradigma, però, che sembra vigere in molti Paesi a prevalenza islamica. Ed è quello che considera la libertà di coscienza ed espressione subordinata all’ortodossia religiosa, senza che si possa ammettere alcuna espressione di dissenso o di critica. La persecuzioni delle minoranze – cristiani
in primis – e le esplosioni di ferocia di massa dopo vignette o spettacoli ritenuti blasfemi non trovano ancora quel fermo biasimo e quella dissociazione totale da parte dei leader religiosi e politici, delle classi dirigenti e degli intellettuali che servirebbero a far diminuire progressivamente il fenomeno.Qui il paradigma non è ancora cambiato e per farlo serve una rottura "rivoluzionaria". Non necessariamente quella delle primavere arabe, piuttosto quella di armonica convivenza nella diversità che il Papa ha indicato nel suo profetico e coraggioso viaggio in Libano. Il mondo cristiano e la Chiesa hanno compiuto da tempo quel passo che conduce da una visione della libertà religiosa a un’altra. La dichiarazione conciliare
Dignitatis humanae è stata il compimento di quella "rivoluzione" che non è stata indolore. Anche strappi e incomprensioni hanno costellato il cammino verso il riconoscimento del fatto che il «diritto della persona umana alla libertà religiosa deve essere riconosciuto e sancito come diritto civile nell’ordinamento giuridico della società». Questo non significa certo che servano più eresie e vignette contro il Profeta perché il mondo islamico si abitui alla tolleranza. Non possiamo che auspicare il massimo rispetto delle religioni. Ma il mutamento di paradigma non potrà che avvenire molto lentamente se l’islam come sistema sociale prevalente non comincerà, in alcuni Stati, a mettere in discussione – con una rottura inizialmente anche traumatica – l’integralismo come forma privilegiata di approccio e il rifiuto di una laicità positiva quale assetto capace di inclusione e garanzia di una piena libertà di coscienza. Il salto che si sono dimostrate in grado di fare le diplomazie, grazie agli "insegnamenti" di una storia sanguinosa, è quello che dobbiamo auspicare sappiano fare anche singole nazioni. Aiutate da un Occidente che non ceda sui principi, ma si risparmi gratuite e inutili provocazioni.