ei mesi fa aveva cambiato tutto, intervenendo. Ieri ha di nuovo rovesciato il tavolo, facendo l’esatto opposto: andandosene. Una volta di più Vladimir Putin dettaei mesi fa aveva cambiato tutto, intervenendo. Ieri ha di nuovo rovesciato il tavolo, facendo l’esatto opposto: andandosene. Una volta di più Vladimir Putin detta agli altri il ritmo della crisi in Siria annunciando il ritiro unilaterale delle truppe (circa 6mila uomini) e delle forze aeree (tra 100 e 150 cacciabombardieri Su-34 e Su-35) schierate dal settembre scorso a sostegno del presidente Assad e contro le formazioni ribelli più o meno jihadiste. Il Cremlino non ha chiarito la misura e i termini di tale ritiro, ma il colpo di teatro resta. Così come restano la coreografia costruita per soddisfare lo spirito nazionalistico dei russi, con la pignola elencazione dei successi sul campo, il momento scelto per stupire il mondo (nel quinto anniversario della guerra civile, all’inizio dei colloqui di pace di Ginevra e nel mezzo della tregua) e il cambio di copione nel Vicino Oriente diventa sempre più sostanziale.La mossa russa, evidentemente concordata con gli alleati di Teheran e di Damasco, affonda le sue radici in una realtà indiscutibile: l’urto dell’aviazione russa ha mutato il corso della guerra. Sei mesi fa il regime di Assad era in forte difficoltà, ora è di nuovo quasi padrone della Siria che più conta, quella disposta lungo la direttrice tra Damasco e Aleppo. E i gruppi islamisti oggi sono assai più deboli. È vero che i russi non sono andati per il sottile nemmeno con i cosiddetti “moderati”, però le truppe governative da loro appoggiate oggi sono in vista di Raqqa e Palmira e vicine a riconquistare Deir Ezzor, capisaldi del Daesh. L’intervento militare russo, inoltre, ha dato impulso a tutta la battaglia contro il jihadismo, come si nota dai progressi fatti anche in Iraq dalla coalizione a guida Usa e dall’avanzata dei curdi (appoggiati dagli americani) nel Nord della Siria.L’altra faccia di questa medaglia è il prezzo terribile chiesto ai siriani. Tutti gli indicatori dicono che il 2015 è stato l’anno peggiore, con più di 50mila morti sui 250 mila totali, un aumento del 44% rispetto al 2014 degli attacchi contro ospedali e strutture sanitarie, il blocco quasi totale degli aiuti umanitari (dati Save the Children).Sbaglieremmo, però, se pensassimo che Putin voglia, ora, solo certificare una vera o presunta vittoria russa. Questo ritiro non è un bel gesto, ma una mossa da scacchista in una partita lungi dall’essere finita. Ora l’onere della prova è tutto nel campo americano. Barack Obama deve mostrare di voler battere il Dash, che resta tuttora protagonista tra Siria e Iraq. Di saper tenere sotto controllo sia le rabbiose ambizioni territoriali della Turchia sia le nevrosi anti-sciite dell’Arabia Saudita. Di avere un’alternativa politica al mantra “prima di tutto via Assad” da Washington ripetuto per anni e infine reso nullo dalle manovre di Mosca. Non poca cosa per un presidente agli sgoccioli del secondo mandato e poco entusiasta degli alleati, come certe recenti interviste hanno dimostrato.Però ci sono anche indizi positivi. Obama e Putin hanno ripreso a parlarsi. E il telefono rosso ha ricominciato a squillare proprio quando la «terza guerra mondiale a pezzi» sembrava dover deflagrare alla massima potenza, con Turchia e Arabia Saudita pronte a vere spedizioni sul campo. La tregua, come si diceva, funziona meglio del previsto. E anche se Putin fa il furbo e non ha intenzione di mollare davvero la presa, il suo annuncio non può che rinvigorirla.
Tenendo poi presente che le potenze hanno interessi e non ideali, è persino possibile che la sua mossa, come tutte quelle dei bravi scacchisti, nasconda altre mosse. Una Siria non più unitaria e centralizzata, ma federale e autonomista, secondo un progetto che tanto piace ai circoli politici americani. E nella parte di Siria “governativa e cara a Mosca magari non più Assad, forse destinato a un esilio dorato sul Mar Nero, ma un personaggio meno compromesso con gli orrori della guerra civile. Gli scacchisti sanno fare sacrifici al momento giusto. Questo consentirebbe anche agli Usa di gridare vittoria e salvare la faccia, e sarebbe un bel risultato. Anche per Mosca.