In cosa speriamo. Calcoli umani o certezza di Dio: il futuro dipende dalla speranza
Pellegrini varcano la Porta Santa di San Pietro
Con questo articolo prende il via un viaggio ambizioso lungo l’anno giubilare, per vedere ciò che fonda la nostra fiducia nel domani e capire quel che dovrebbe costituirne la struttura, tra fede e ragione. Una «speranza che non delude»: tutti desideriamo di poter contare su quel che il Papa indica come cuore del Giubileo, tanto da scegliere questa espressione di san Paolo come titolo della Bolla di indizione. Ma quale speranza, oggi, può “non deludere”? Che speranze nutrono il nostro sguardo sul futuro? Su quali fondamenta edifichiamo i progetti della vita, le attese, i sogni? E la società, a che speranza collettiva attinge? Così anche la cultura, l’economia, la scienza, la politica... Ecco il senso della domanda che ci accompagnerà nelle domeniche dell’Anno Santo, grazie a voci credenti e laiche, e con ciascuno di voi lettori: noi, in cosa speriamo?
Il Concilio si proponeva l’aggiornamento della Chiesa. L’evidenza più significativa di ciò che ne è seguito è stata la riforma della teologia, che di per sé non era in cima agli obiettivi. Ne abbiamo guadagnato alla fine, per prove ed errori, un linguaggio della fede e dell’intelligenza della fede più aperto, più esistenziale, più creativo. Decisamente più modesto è stato, nonostante il fervore di rianimazione profuso dalla generazione post-conciliare, l’aggiornamento del ministero pastorale, della pratica sacramentale e della vita comunitaria della parrocchia: ossia per quelle condotte che definiscono la normalità epocale della forma ecclesiale. Si vede che per una riforma ecclesiale capace di abitare il presente non eravamo pronti come pensavamo. Lo dimostra il fatto che se ne sta occupando, proprio ora, come daccapo rispetto al Concilio, il Sinodo dei Vescovi, grazie all’impulso radicale per l’attivazione di una Chiesa Sinodale che è venuto da papa Francesco.
Rimane in evidenza il fatto che il problema maggiore della Chiesa sembra essere la riforma della Chiesa: tema sul quale ci stiamo sfiancando dalla metà del secondo millennio. Nella contemporaneità, per la seconda volta, sia pure con un diametro ridotto – di diritto e di fatto – rispetto all’evento conciliare, l’evento sinodale mette a fuoco la necessità di una trasformazione del ministero, del sacramento, della comunità, in vista della missione. Impostazione necessaria, e pure coraggiosa, certamente. Però, coltivata da sola, temo che non basterà neppure questa volta. (Nonostante l’enorme slancio di generosità profuso nella stagione post-conciliare, il ministero, il sacramento, la comunità si sono dolcemente riassestate sui modelli della mia infanzia pre-conciliare). C’è qualcosa che deve venire maggiormente in evidenza, per essere affrontato contestualmente al tema della “riforma” della Chiesa. In caso contrario, la ricaduta del fervore spirituale della fede nel circolo vizioso dell’autoreferenzialità è inevitabile. (Dopo tutto, a ben guardare, tutti i temi “caldi” del Sinodo sono, senza eccezioni, problemi della riforma clericale: il suo rapporto con il genere maschile, la sua consacrazione alla dedizione celibataria, la forma e i limiti del suo potere di governo, il nesso del ministero petrino ed episcopale). Insomma, la concentrazione esclusiva sulla “riforma” ecclesiale, che pure si propone di rendere più efficace la “missione”, rischia di essere – per la terza volta – un diaframma che oscura e allontana il nostro interlocutore, invece che illuminarlo e renderlo vicino. Un vero paradosso. L’abbellimento della Chiesa, che si sposa con l’ossessione della sua attrattiva, non deve requisire le nostre passioni, i nostri discorsi, le nostre pratiche. Una Chiesa che cura la pulizia della persona ed esibisce una bellezza “acqua e sapone” già ci farebbe sognare. Il resto verrà con la passione disinteressata della testimonianza e con la generosità incondizionata dell’intercessione: perché la Chiesa si forma – e si riforma – quando si dimentica di sé stessa per ricordare alla comunità umana la sua grandiosa destinazione. In quel momento è bellissima.
Il vincolo della fede evangelica nell’amore di Dio con il governo clericale dell’esistenza umana tramonta: non soltanto nella sfera politica, ma anche nella forma ecclesiale della fede. La comunità dei discepoli deve congedarsi dal modello di una società parallela a quella civile, in competizione con essa per la regia etico-politica della storia. Questo modello ha costituito fino a ora il grembo e l’incubatrice, in attesa di svezzamento. L’ora del cibo solido è venuta. Le istituzioni comunitarie della fede, plasmate dall’iscrizione della vita collettiva nel modello di una regia “signorile”, non sono più in grado di contenere il soggetto “personale” della libertà, dell’amore, della giustizia, che il cristianesimo stesso ha generato per tutti. Non lo sono, perché quell’ordine non funziona più neppure per la città secolare: si può tentare di ripristinarlo soltanto con l’imposizione e addirittura la violenza, come ora vediamo benissimo che accade in molti luoghi. Il suo tentativo di reinsediarsi nel presente è spesso orribile, e ci mette paura: ma non ha futuro. Noi abbiamo imparato a chiamare “democrazia” il segno della rottura con l’ordine signorile del diritto e del bene. E chiamiamo ora “fraternità”, timidamente e non senza qualche imbarazzo, il segno del congedo dalla contrapposizione fra cristiani che solo comandano e quelli che solo obbediscono. Nessuno si offenderà, di questi tempi, se riconosciamo di non avere ancora una reale cognizione della svolta (questa sì, veramente epocale) e un’attrezzatura adeguata al compito di pensarla e di abitarla.
La svolta mostra di averne bisogno: tanto la democrazia civile quanto la fraternità ecclesiale hanno le loro vulnerabilità. E il tempo presente mostra con chiarezza la loro potenziale inclinazione a percorrere derive di contraddizione. Forse abbiamo pensato che bastasse la definizione, per avere anche la cosa. Errore. Dobbiamo ridiventare più umili e riconoscere che la nostra filosofia e la nostra teologia hanno largamente sottovalutato la portata della svolta, che chiede serietà di riflessione e invenzione di categorie infinitamente più raffinate di quelle di cui disponiamo. L’improvvisa percezione di non avere a disposizione né l’una né l’altra ci sta conducendo allo scoramento e – addirittura – alla rassegnazione. Ci tocca buttare il cuore oltre l’ostacolo, come si dice: e siamo già in ritardo. La speranza cristiana non è attesa “che Dio ce la mandi buona” o azzardo della fortuna di una “giocata alla lotteria”. La speranza cristiana non è probabilità dei calcoli dell’uomo, è certezza dei possibili di Dio: insegna a cercarli, a riconoscerli, a giocarseli come i talenti della parabola. L’urgenza di questa ricerca esibisce oggi tratti drammatici (non possiamo perdere così tanto tempo a imbiancare casa). Ma offre anche segni positivi, inediti, insospettabili. Ogni giorno, da un po’ di anni, accade che menti brillanti della città secolare, indipendenti da ogni disciplina ecclesiastica, dichiarino esplicitamente e in molti modi che la rimozione del vangelo, della fede, della testimonianza cristiana è già l’inizio di una catastrofe per l’umanesimo planetario. L’anno giubilare, simbolicamente, parla di riposo dell’ossessione produttiva, di remissione del debito e di riconciliazione delle annose contese. Non sarà per caso proprio questo anno giubilare, guardando a questi segni dei tempi, l’occasione buona per chiudere l’annoso contenzioso fra ragione e fede, che ha accumulato – da entrambe le parti – anche sacche di ignoranza e di inerzia intellettuale di imbarazzante profilo? Comunità stremate dalle guerre e messe in ginocchio dall’impoverimento, meritano “l’uscita” degli intellettuali dalle loro battaglie di retroguardia. Si impegnino a cercare i possibili dell’uomo, e i possibili di Dio, con spirito di alleanza (immaginate se la scuola, che sta vergognosamente disertando l’umanesimo, fosse questo!). Invece di spiegare puntigliosamente la potenza salvifica dell’incertezza su tutto, gli intellettuali pensino di più ai giovani, che, quando non sono indotti ad ammazzarsi dagli sciamani della religione e dai signori della guerra, si ammazzano ormai anche da soli.
Però, anche il buco nero aperto dal collasso culturale e sociale della prossimità di Dio – senza pensiero, senza cultura, senza decenza – deve essere richiuso. L’individualità dell’opinione si è allargata a occupare tutta la scena: “uno vale uno”. E nessuno ascolta più nessuno. La società umana affonda, semplicemente, se perde ogni rispetto per i testimoni del sapere lungamente collaudato, del pensare di più alto profilo, dell’amore verificato per il bene comune. L’idea che le idee e le condotte che plasmano l’odierno umanesimo siano quelle della pubblicità commerciale e degli influencer del costume dovrebbe generare più scoramento. Irrimediabilmente, il fondamentalismo religioso e il sovranismo aggressivo vanno a occupare il posto lasciato sguarnito dalla indecorosa mediocrità culturale imposta alle nuove generazioni. L’effetto di una educazione umanistica inesistente sarà scontato da una inconsapevole regressione tribale, anche in società che si ritengono molto evolute tecnologicamente, economicamente e persino giuridicamente. La regressione, in un contesto di ricchezza intellettuale e materiale così facilmente condivisibile come il nostro, è particolarmente spregevole. Le guerre di religione e di civiltà, di conquista e di rappresaglia, come anche l’insofferenza e l’aggressività che si stanno “normalizzando” nei rapporti micro-sociali, dovranno essere scontate da una penitenza che avrà bisogno di molta indulgenza: di Dio e del prossimo. Moltissima, e in ginocchio. È già successo. Succederà. L’ultimo dei possibili di Dio, di cui la speranza cristiana è certa, è la risurrezione dalla morte per una vita riconciliata: in cui nessun debito rimane insoluto e tutte le vittime sono puntualmente risarcite. L’umanità non è la posta della religione più colonizzatrice della storia, è la pupilla della compassione più struggente di Dio.
(1 - continua)