Opinioni

Il direttore risponde. Il problema del calcio è (non solo) la violenza

martedì 1 dicembre 2009
Caro Direttore,sono un prete cattolico. Ho giocato a calcio e resto convinto che lo sport possa veicolare valori: a patto di volerlo davvero! Sono sconcertato dal calcio così come appare, ma soprattutto da chi ne parla facendo finta di capirne. In particolare mi inquieta l’ultimo tormentone: i cori "razzisti" di cui, all’improvviso, si fa un gran parlare. La mia teoria è che parlare di "razzismo" sia un modo banale per nascondere la classica spazzatura sotto il tappeto. Il drago al quale con dei ridicoli "colpi di tosse" (leggi la periodica indignazione) si cerca di mettere la museruola non è il razzismo, ma una cosa tremendamente più semplice e pericolosa: la violenza, scatenata non solo e non tanto contro chi non è come me, ma contro chi non la pensa come me e, definitivamente, contro chi non mi è "utile". E il tifo, purtroppo, è l’alveo naturale di una follia del genere. Badiamo bene, l’alveo, non la sorgente. Perché la sorgente è altrove, in una mentalità che sempre più consiste nel considerare ognuno legge a se stesso, con buona pace della convivenza civile. Vincere una battaglia significa, preliminarmente, scegliere una bandiera sotto cui combattere.Il contrario della violenza è la tolleranza, oserei dire la gentilezza: ma nel calcio, dove sono? Danno un esempio di tolleranza e gentilezza i calciatori in campo, i presidenti, i dirigenti, i giornalisti?Va detto con chiarezza che se i cori da stadio sono folli (tutti, non solo alcuni a seconda della rispettiva convenienza a parlarne). Il comportamento in campo di troppi giocatori è vergognoso (bestemmie e parolacce, gioco violento, finzioni e slealtà varie), e quello di tanti giornalisti è addirittura viscido, perché nasconde le stesse identiche insulse passioni (tifo o interesse personale) dietro il totem del dovere di informare (che però consiste sempre meno nell’informare e sempre più nel creare una opinione): che pena vedere l’informazione sportiva manipolare o nascondere le notizie per alimentare teoremi personali!Continuando così non si va da nessuna parte. Non serve a nulla chiudere gli spalti e continuare a giocare e a parlare con la stessa identica violenza. E, soprattutto, non serve pretendere dagli altri virtù che si rinnegano apertamente con le proprie azioni. L’aver alimentato l’immagine da "paese dei balocchi" è il vero peccato capitale di un calcio così: le sole 20 squadre di serie A nel solo 2008 hanno realizzato un debito di 1.882 milioni di euro e la squadra che vince di più (e guadagna di più) è la più indebitata con 431 milioni di euro (a proposito: la finanziaria 2008 assegnava al fondo per la non autosufficienza 400 milioni...).Ci sarebbe da riflettere su questo treno in folle corsa, a bordo del quale, per recuperare ogni scampolo di fama o denaro, sembra necessario essere disposti a passare anche sulla pelle degli altri. Ma anche questa volta non avremo tempo: dobbiamo far finta di correre a disinnescare le bombe che noi stessi abbiamo prodotto e consegnato ad un buon numero di bambini incoscienti.

don Cesare Covino, Potenza

La sua analisi, gentile don Cesare, è amara e coinvolgente. I cori contro Balotelli hanno innescato motivate polemiche sulla risorgenza o meno del razzismo negli stadi, ma che sono quasi sempre rimaste prigioniere di una micidiale miopia. Ci si è concentrati, infatti, sul più che deprecabile particolare senza, però, tenere in adeguata considerazione il contesto, ciò che si muove attorno a quei cori e a quelle minacce (e, prima ancora, ne è alla base). Si tratta di una realtà che, come lei nota, non è tutta condensabile nel pur pesantissimo concetto di razzismo, quanto meno perché nel nostro campionato hanno militato e militano numerosi altri giocatori di colore che sono accolti e applauditi senza proteste dalle tifoserie anche avversarie.Nel caso di Balotelli si ha l’impressione che il colore della pelle sia più che l’obiettivo dell’insulto, lo strumento per enfatizzare e inasprire un’antipatia ormai sfociata in gravissima ostilità. Tutto questo non attenua il problema, anzi lo rende per certi versi più grave. A SuperMario, ragazzo italiano nero, non si perdona quello che ad altri verrebbe perdonato e non si risparmia ciò che ad altri verrebbe risparmiato. Sembra una sottigliezza, ma non lo è. Balotelli non è aggredito perché di pelle diversa, ma una volta messo nel bersaglio viene colpito con più ferocia a causa della sua pelle diversa. Questo dice di noi – o meglio di una certa parte di noi – qualcosa di veramente insopportabile. È uno dei problemi a cui lei fa cenno. E trovo appropriate e stimolanti le sue riflessioni, alle quali consegue forse la conclusione che il carattere "sportivo", cioè di lealtà e correttezza, della partecipazione (in campo e sugli spalti) alle competizioni agonistiche inclina pericolosamente a un destino da residuo anacronistico. C’è però un ma: il crescente e, per certi versi, inaspettato successo del rugby, col leitmotiv dei commenti degli spettatori – «qui non è come nel calcio» – potrebbe e dovrebbe essere di insegnamento e di monito sia a chi punta a fare dello stadio un luogo di potere e di battaglia, sia a chi, al contempo, si crogiola nella presunzione del consenso indefettibile al pallone e del conseguente business. Le cifre che lei ricorda mostrano quanto la base della piramide sia precaria. La bolla della finanza è scoppiata, svelando la fragilità anche del teorema «troppo grande per fallire»: siamo sicuri che il calcio nostrano sia al riparo dal rischio di collasso?