Lettere. Calamaio e rispetto, quando gli insegnanti erano semplicemente autorevoli
Caro Avvenire,
sono una nonna di 86 anni che legge con piacere Popotus. Ho letto con commozione la prima pagina del numero di martedì 30 gennaio aperta dal titolo «Chi si rivede, il calamaio!». Io ho vissuto in quelle aule, con quei banchi e con quei calamai (che erano sempre vuoti per la disperazione dei bidelli), e sono stata messa dietro la lavagna in castigo per la mia vivacità. Ho indossato il grembiulino bianco con il fiocco blu, ho usato i quaderni a righe e a quadretti per 5 anni. Quello che forse non traspare nello scritto è il rispetto che noi bambini avevamo per gli insegnanti, il silenzio che si osservava in classe, l’alzata in piedi quando entrava in aula un altro insegnante o il direttore o la direttrice. Il rispetto che i nostri genitori avevano per il corpo docente, «che aveva sempre ragione ». Non c’era assolutamente severità, ma autorevolezza, e noi bambini eravamo allegri senza essere indisciplinati. Vi ringrazio per i due numeri settimanali di Popotus: è la prima cosa che leggo quando entra in casa il nostro bel giornale. Con viva cordialità
Anno 1964, Milano, in una scuola statale come tante. Eravamo più di trenta in quella classe prima. Tutte bambine, tutte col grembiule bianco e il fiocco blu. Erano gli ultimissimi anni dei calamai. Dopo sei mesi passati a scrivere a matita ci misero in mano le penne con il pennino d’acciaio, da intingere nell’inchiostro. L’inchiostro era nero e denso, ogni giorno rabboccato da un bidello con una grande brocca. I pennini nella nostre mani inesperte schizzavano qui e là. Avevamo la carta assorbente candida, pronta per asciugare. Ogni tanto, in primavera, una mosca andava ad annegare in un calamaio, e veniva ripescata da qualcuna di noi tra il raccapriccio delle compagne. Le mani, all’ora di andare a casa, erano – almeno le mie – tutte macchiate, e non veniva via quell’inchiostro, se non strofinando ostinatamente. Dopo l’estate, a ottobre ci diedero il permesso di scrivere con la biro. I calamai rimasero vuoti. Era finita un’era, che la mia generazione aveva appena sfiorato. Ma era, in quegli anni Sessanta, del tutto un’altra epoca anche nel modo di stare in classe, e con la maestra. Un modo più vicino a quello che racconta la 86enne signora Franca, che all’oggi. Ci avevano insegnato un naturale rispetto per gli insegnanti, e in generale gli adulti. Quando entrava la maestra, la classe zittiva e si alzava in piedi. Anch’io non ho ricordi di autoritarismo: piuttosto, di una serena disciplina. Senza minacce, senza alzare la voce. Funzionava così: noi bambini ci fidavamo dei grandi. Non doveva essere una classe facile da tenere, quella “I A” così numerosa. Era il tempo della grande immigrazione dal Sud, e forse dieci di noi erano figlie di immigrati, appena sbarcate a Milano. Non parlavano l’italiano come noi, non erano altrettanto ben vestite, però il grembiule e il fiocco erano ordinati. Se qualcuna restava indietro col programma la maestra le affiancava una compagna più brava, ad aiutarla. Sicuramente percepivamo che c’era una divisione fra noi, le “milanesi” e le “altre”, però non ricordo di avere mai sentito volare una parola di disprezzo. Ripenso a quella maestra, la signorina Zambrini, austera nel suo grembiule nero, con gratitudine e affetto. Ci ha insegnato da sola l’italiano, l’aritmetica, la storia, la geografia e l’educazione. A nessuna sarebbe mai venuto in mente di mancarle di rispetto, e non perché ci facesse paura. Guardando indietro, ora penso che in quel 1964 si vivesse ancora nell’ultima eco del dopoguerra e della ricostruzione, in un’Italia che lavorava e cresceva. Ma, anche, era ancora il tempo in cui l’autorità degli adulti – padri, maestri, professori – era indiscussa. Di lì a poco sarebbe arrivato il 1968 e poi, come un’onda, tutto un altro modo di giudicare e di vivere; tutto rimesso in discussione, contestato, spesso rifiutato – il concetto di autorità, per primo. Ma auctoritas in latino viene da augere, che significa far crescere, e in un mondo senza alcuna autorità riconosciuta si cresce a fatica. Noi ex bambine del 1964 ci ritrovammo, ginnasiali, in un liceo che aveva fuori dal portone le camionette della polizia schierate, e spesso c’erano tumulti, al mattino. Scoprimmo che era normale uscire dalla classe o anche dalla scuola nell’ora di lezione, ignorare un professore, contestarlo se dava voti bassi o domandava troppo, gridargli “fascista” se pretendeva disciplina. La auctoritas, come il rispetto di cui parla la lettrice, erano finiti, insieme a tutto un mondo. Studiai molto meno dei miei fratelli maggiori, e me ne rallegrai. Eppure se penso all’aria che si respirava in quella “I A” del 1964, confesso che ne ho nostalgia, e la sensazione di avere, essendo nata troppo tardi, perduto qualcosa.