Opinioni

Proposta. Perché amnistia e indulto sono la risposta al sovraffollamento delle carceri

Luigi Patronaggio mercoledì 28 agosto 2024

Il carcere di San Vittore, a Milano

Uno dei principali temi sulla giustizia che ha tenuto alto il dibattito politico in questa torrida estate è stato quello del sovraffollamento carcerario, della vivibilità dei nostri penitenziari e del tristissimo, drammatico, crescente fenomeno dei suicidi in cella.

Ancora una volta, quasi una costante di questa legislatura, all’interno della maggioranza politica si sono confrontate le due diverse anime del centro destra, quella liberale-garantista e quella più “muscolosa” dei sostenitori della tutela dell’ordine pubblico e dell’effettività della pena. L’opposizione, da parte sua, ha avuto buon gioco ad evidenziare le contraddizioni della maggioranza e a rilanciare un garantismo, tuttavia, a tratti oscillante e contraddittorio.

Del resto i provvedimenti legislativi fin qui assunti, spesso con ricorso alla decretazione di urgenza, sono andati verso la direzione di un rafforzamento del sistema sanzionatorio e della introduzione di nuovi reati, fatta eccezione per i reati tipicamente commessi dai cosiddetti “colletti bianchi” che hanno goduto di forme di depenalizzazione (su tutti l’abolizione del reato di abuso di ufficio) e un rafforzamento delle garanzie processuali.

Sono state messe in campo idee, progetti, proposte, alcune di queste si sono pure trasformate in decreti e leggi, ma il problema è rimasto lì con tutta la sua drammaticità, come testimonia l’anomala richiesta di incontro sul tema avanzata dal Guardasigilli al Presidente della Repubblica.

Si è agito con un massiccio aumento degli organici della polizia penitenziaria, si sono introdotte nuove norme sulla esecuzione penale, abbassando i limiti per beneficiare delle misure alternative alla detenzione, si sono apportate modifiche in tema di liberazione anticipata. Si è ventilato di aumentare da 45 a 60 giorni il beneficio semestrale dello sconto di pena per liberazione anticipata e, cosa più grave, si è indotta nella popolazione carceraria l’errata idea che la liberazione anticipata sia un diritto automatico di cui si potrà beneficiare a prescindere dalla buona condotta e dalla partecipazione ai programmi di recupero. Ancora si è rilanciato, con intenti deflattivi, il tema della limitazione del ricorso alla custodia cautelare, istituto che tuttavia è necessariamente strettamente legato alla sussistenza di precise eccezionali esigenze cautelari, quali il pericolo di fuga dell’indagato, quello relativo all’inquinamento probatorio e quello relativo alla reiterazione della medesima condotta criminosa.

Misura peraltro tipicamente cautelare ed eccezionale (fors’anche migliorabile in senso garantistico), regolata con modalità e tempi rigorosamente scanditi per fasi processuali ma per effetto della quale i ristretti in carcere rappresentano un segmento limitato della popolazione carceraria pari a poco più del 10% della intera popolazione carceraria. Pochissimi, mal coordinati e non organici, sono stati gli interventi fin qui operati sul versante del recupero del condannato e del suo reinserimento sociale. Disastrosa continua ad essere la situazione della sanità carceraria, con punte di alta criticità in quelle regioni che storicamente vi-vono una carenza di servizi sanitari pubblici che, sia detto per inciso, non potranno che peggiorare con la recente riforma sulla autonomia differenziata.

Ancora più disastrosa appare, infine, la situazione della psichiatria carceraria e il recupero di tossico ed alcool dipendenti, dove continuano a registrarsi scarsi investimenti e una carente integrazione fra gli interventi pubblici e le associazioni del terzo settore. Ancora una volta è stato trascurato un approccio inclusivo al problema, dove il sistema, lungi dal continuare ad innalzare muri dovrebbe tendere a creare ponti e, aggiungerei, ponti solidi, razionalmente percorribili con trasparenza e giustizia, possibilmente a senso unico con direzione dalla punizione al reinserimento.

Pochi attori politici, forse condizionati da strategie elettorali, hanno intravisto, in questo drammatico momento di sovraffollamento carcerario, la possibilità di far ricorso all’amnistia e all’indulto sebbene riservati ai detenuti socialmente meno pericolosi in ragione dei reati commessi e della loro personalità. Misure che non devono apparire come una abdicazione dello Stato e della sua potestà punitiva, quanto misure realisticamente utili per superare questa attuale innegabile fase di criticità. A giudizio di chi scrive, invece di ricorrere a contraddittorie riforme, con disposizioni legislative spesso scritte in modo affrettato, il ricorso all’amnistia e all’indulto darebbe la possibilità, di riportare la calma all’interno delle carceri e di ragionare sul tema in modo più sereno e pacato, cercando soluzioni durature di medio e lungo termine. Solo per fare un esempio a favore del ricorso ai due istituti, il meccanismo della liberazione anticipata automatica e le farraginose procedure esecutive per la concessione di misure alternative alla detenzione davanti al giudice della sorveglianza, necessitano di un numero di magistrati allo stato non disponibile e difficilmente reperibile nel breve periodo.

Riflessioni a parte andrebbero poi articolate sulla carcerazione minorile che deve rimanere la estrema ratio della difesa sociale. Un intervento organico di rivisitazione della materia deve necessariamente passare da una attenta analisi del disagio giovanile e dei fenomeni di devianza minorile, contestualmente agendo sulle famiglie, sulla quantità, qualità e professionalità degli attori della giustizia minorile e, infine, sulle strutture che nulla devono avere in comune con quelle restrittive riservate agli adulti ma che devono sempre di più assomigliare a strutture di accoglienza. Per le carceri minorili occorre operare una rivoluzione culturale pari a quella che intraprese anni addietro Basaglia per fronteggiare il disagio mentale. Le strutture chiuse portano infatti ad acuire tensioni, a radicalizzare devianze, reiterare copioni di vita marginale appresi per strada o in famiglia, specie in personalità non ancora mature, spesso prive di risorse culturali, bisognose di essere accompagnate verso la società piuttosto che sentire di esserne escluse.

Minore importanza non hanno il tema della situazione carceraria femminile e quella degli extracomunitari. Pur non condividendo le disposizioni del Decreto Sicurezza che, sulla spinta emotiva del fenomeno delle borseggiatrici ROM, ha modificato i casi di rinvio della pena per le donne madri di figli con età inferiore a un anno, ci si chiede quanti Istituti a Custodia Attenuata per le Detenute Madri (ICAM) sono stati nel frattempo istituiti e quale è la situazione degli asili nido e degli altri spazi di socializzazione realizzati negli istituti penitenziari per favorire gli incontri fra le detenute e i loro figli minorenni.

Da un recente studio si apprende con allarme, infatti, che gli ICAM in Italia sono solo 4 e che gli asili nido funzionanti presso le sezioni femminili degli istituti di pena sono solo 11. Una considerazione, infine, sui detenuti extracomunitari che oggi rappresentano il 31,8% della intera popolazione carceraria. Non vi è dubbio che è un segmento di tutto rispetto che affolla le nostre carceri, ma è pur vero che in molti casi si tratta di detenuti che hanno subito un trattamento sanzionatorio di gran lunga differente da quello riservato ai cittadini, anche a fronte di una pericolosità sociale, alle volte solo percepita come allarmante, ma spesso frutto di pregiudizi e sicuramente arginabile con una maggiore attenzione alle problematiche di accesso ai servizi sociali e sanitari per i non residenti. Valga per tutti un esempio: molti extracomunitari non possono beneficiare della detenzione domiciliare in quanto privi di idoneo alloggio e il loro accesso a misure alternative alla detenzione appare di gran lunga più problematico che per i cittadini per mancanza di offerte di lavoro e delle altre condizioni previste dalla legge.

Ci auguriamo quindi che il drammatico tema del sovraffollamento e dei suicidi in carcere venga affrontato al più presto con provvedimenti organici e di ampio respiro e che, nelle more, si faccia ricorso agli istituti dell’amnistia e dell’indulto, unici mezzi oggi capaci di riportare con immediatezza la pace all’interno delle infuocate carceri italiane. Il ricorso ai due istituti di grazia collettiva dovrà essere visto come una eccezionale forma di intervento a favore della popolazione carceraria, penalizzata in questi anni da contraddittorie politiche giudiziarie e dalla carenza di investimenti nel settore della prevenzione, del recupero, della risocializzazione e dell’edilizia penitenziaria.

Procuratore generale di Cagliari