Coronavirus. C'è un utile «doppio binario» per globalizzare le vaccinazioni
Gentile direttore, c’è una mappa del mondo di cui si parla troppo poco sugli altri media nazionali e internazionali. Va dal rosa chiaro, quasi tendente al bianco, al rosso scuro a indicare, attraverso diverse sfumature, i Paesi con minore tasso di somministrazione di vaccini anti-Covid e quelli con maggiore immunizzazione. Essa mostra la straordinaria disuguaglianza nell’accesso a quello che, come hanno sancito i leader del G20 nella Dichiarazione di Roma, dovrebbe essere un «bene comune globale», il vaccino anti Covid. I dati, purtroppo, raccontano una realtà ben diversa: i Paesi ad alto reddito hanno finora completato le vaccinazioni per quasi il 55% della loro popolazione, mentre i Paesi a basso reddito non si arriva all’1%. Drammatica la situazione in Africa, dove solo 20 Paesi hanno vaccinato almeno il 10% della popolazione. Il target fissato dall’Organizzazione mondiale della sanità, l’obiettivo di vaccinare il 70% della popolazione mondiale entro la metà del 2022, è irrealistico in queste condizioni. La strategia di aumentare la produzione di vaccini in Occidente per poi incrementare le donazioni ai Paesi più poveri sta naufragando nei ritardi e neanche il virtuoso programma Covax riesce a far fronte al fabbisogno di una popolazione vastissima. Per altro, in queste settimane la domanda di vaccini a mRNA è aumentata vertiginosamente perché i Paesi ad alto reddito raccomandano le terze dosi: una situazione che rischia di acuire quello che nel mondo anglosassone viene definito il «Protection divide». Ma le maggiori economie del mondo hanno l’opportunità di trasformare questa situazione di disuguaglianza, lanciando nuove iniziative che forniscano sistemi di salute pubblica, sanità e produzione industriale più solidi. Non si possono e non si devono sprecare gli straordinari progressi della ricerca e della scienza medica, che in pochi mesi ci ha messo a disposizione vaccini sicuri ed efficaci, che a tutt’oggi sono lo strumento principale per evitare ricoveri e decessi.
Per tutti questi motivi, in molti suggeriscono – e 'Avvenire' lo fa sin dal primo momento – che sia necessario procedere alla sospensione temporanea dei brevetti sui vaccini anti-Covid e alla loro produzione diffusa. E qui la storia dell’accesso alle cure per l’Hiv ha molto da insegnare. A partire dal 2000, infatti, ha funzionato un meccanismo innovativo: le aziende farmaceutiche sono state ragionevolmente 'pressate' a cedere volontariamente i brevetti a produttori di generici che, in poco tempo, hanno permesso all’Africa sub sahariana di accedere agli stessi farmaci utilizzati nei Paesi ricchi, anche grazie all’intervento del Global Fund e del Pepfar (il Piano di emergenza del Presidente degli Stati Uniti per la lotta all’Aids). In questo modo, l’industria ha continuato a fare innovazione, mantenendo i suoi brevetti nei Paesi occidentali, e i pazienti africani oggi sopravvivono grazie agli antiretrovirali generici. La situazione per quanto riguarda i vaccini è in parte diversa.
Non sono farmaci chimici facilmente 'genericabili', la catena di produzione e distribuzione è molto complessa, e c’è anche un problema di accesso alle materie prime. La pura e semplice cessione dei brevetti potrebbe servire a poco. La via con maggiore visione a medio-lungo termine passa per la costruzione di un meccanismo di trasferimento tecnologico e la creazione di hub di produzione nei continenti più poveri. Tale trasferimento tecnologico aiuterebbe anche, in prospettiva, a produrre localmente vaccini per altre malattie infettive e farmaci biologici che mancano per tante malattie croniche. Si può fare. Basterebbe che le grandi aziende produttrici, ma anche gli stessi Paesi che hanno tecnologie pubbliche avanzate, accettassero di aiutare i Paesi meno ricchi a produrre in loco i vaccini, cedendo le licenze, esclusivamente per quei Paesi. È la 'strategia del doppio binario' e, come per l’Hiv, può funzionare.
Quel che l’industria potrebbe temere è il 'ritorno' di questi prodotti a basso costo in Occidente. Ma ci sono diversi sistemi per evitarlo: oggi tutti i farmaci sono 'tracciabili'. La sfida, insomma, è aumentare la capacità di produzione nei Paesi con meno risorse e, soprattutto in Africa, creare reti di distribuzione locale. Ci vorranno mesi per costruire capacità produttive dove mancano? Vero, ma questa è una spinta cominciare subito, non a ritardare ancora. Il trasferimento tecnologico sarebbe costoso? Probabilmente sì, eppure va fatto non solo perché è un imperativo etico e morale, ma anche per sano egoismo. Come anche sulle pagine di 'Avvenire' è stato ricordato, vaccinare tutta la popolazione mondiale avrebbe un costo infinitamente inferiore della recessione economica indotta da sempre nuovi varianti. Nonostante i progressi, il Covid è e resta una minaccia globale e impone risposte coordinate a livello globale. Per questo bisogna lavorare affinché in quella mappa del mondo sia il colore rosso-speranza a prevalere anche nei continenti dove al momento è invece raro.
Angela Ianaro è farmacologa nell’Università Federico II di Napoli e deputata M5s
Stefano Vella insegna Salute Globale all’Università Cattolica di Roma, è stato direttore del Centro per la Salute Globale dell’Iss e presidente dell’Aifa