Opinioni

L’errore di Biden. C'è solo pace con papa Wojtyla e in quel cuore di Varsavia

Massimiliano Signifredi venerdì 8 aprile 2022

Caro direttore
come opportunamente segnalato da questo giornale e dai suoi lettori con tante lettere a lei indirizzate, il presidente statunitense Joe Biden ha citato a sproposito l’invito a non avere paura dell’inizio del pontificato di Giovanni Paolo II, e nel posto sbagliato, perché se c’è un luogo in cui meditare sull’orrore della guerra è proprio la piazza del Castello di Varsavia. Questo non è solo un bel monumento, ma è il cuore della starówka, la città vecchia, un gioiellino incastonato in una metropoli moderna dagli altissimi grattacieli in acciaio e vetro.

Nel 1945 qui c’era un cumulo fumante di rovine, affatto identiche, se non più spettrali di Mariupol o Kharkiv, perché a Varsavia, rasa al suolo all’80%, morirono in pochi mesi 20mila soldati e quasi 200mila civili, mentre 100mila sopravvissuti vennero deportati nei campi di concentramento in Germania e 600mila finirono sfollati. Qui si combatté con ferocia inaudita durante l’insurrezione del 1944, quando i polacchi insorsero per liberare la loro capitale prima dell’arrivo dell’Armata Rossa, certi dell’aiuto degli angloamericani, che però fu tardivo, modesto e disgraziatamente maldestro: tre quarti delle ottanta tonnellate di armi e munizioni, paracadutate dagli aerei alleati, caddero in mano dei nazisti e vennero da questi usate per macellare la popolazione indomita. E i nazisti, per piegare il morale degli insorti, fecero saltare in aria il Castello e tagliarono a pezzi la colonna, sulla cui cima si trova la statua in bronzo di Sigismondo III Vasa.

Questa colonna non è solo il più antico monumento commemorativo non religioso della storia d’Europa, ma anche una raffigurazione plastica di quell’intreccio tra nazione e religione, così caratteristico dell’immaginario collettivo dei polacchi. La città vecchia di Varsavia fu ricostruita dopo la guerra con grandi sforzi e il risultato è unico: un patrimonio mondiale dell’umanità per l’Unesco, affascinante per i turisti, che quasi non si accorgono di passeggiare in una gigantesca opera di restauro. Ricordo Alicja, una povera anziana che ho incontrato durante la visita in una casa di riposo, raccontarmi con gli occhi scintillanti di quando, da ragazza, aveva lavorato nelle squadre dei volontari per la ricostruzione di Varsavia.

«Prendevamo uno a uno i mattoni delle case e delle chiese distrutte e li mettevamo in ordine come pezzi di un puzzle: ridare vita a quelle rovine era la nostra rivincita collettiva su chi ci aveva voluto annientare». I lavori di ricostruzione furono ultimati solamente nel 1984, in tempo per permettere a Jaruzelski di accogliere Giovanni Paolo II alla sua seconda visita in Polonia, quella più complicata, durante lo stato di guerra. Cinque anni dopo, nel 1989, quella stessa piazza fece da cornice al primo incontro interreligioso di preghiera per la pace, promosso dalla Comunità di Sant’Egidio fuori dall’Italia, su invito del primate di Polonia Glemp. Era il 1° settembre, cinquanta anni dallo scoppio della seconda guerra mondiale, ma anche vigilia di grandi cambiamenti, mentre si stava consolidando il compromesso tra comunisti e Solidarnosc e si faceva strada quella transizione pacifica che avrebbe impresso una svolta epocale alla fine del comunismo in Europa.

Riflettendo sulle «ferite» che ogni guerra infliggeva all’umanità e invitando a «un impegno costante» per bandirla come «strumento di risoluzione dei conflitti», papa Wojtyla, in un video messaggio per l’occasione, disse: «Cinquant’anni dopo, sulle strade di Varsavia, risuona non già il passo cadenzato delle truppe di occupazione, ma quello tranquillo e amico dei pellegrini, uomini e donne di religioni diverse, venuti da ogni parte del mondo, privi di ogni forza, se non di quella della memoria che rende pensosi e si esprime nella preghiera per la pace».

La pace è il messaggio della piazza del Castello di Varsavia. Per san Giovanni Paolo II, di cui abbiamo appena ricordato il 17° anniversario dalla morte, che da ragazzo era sopravvissuto alla guerra, il lavoro per la pace necessitava di un «impegno pieno, indefesso» e di un’educazione «per estirpare ogni fiducia nella guerra, per favorire la soluzione di ogni conflitto», un’opera che accomunava persone di religioni e culture diverse e che rispondeva «a una aspettativa del mondo intero, anzi, a un imperativo della storia: 'mai più la guerra!'».

Storico, coordinatore della Comunità di Sant’Egidio in Polonia