Gli episodi, il rispetto semplice che cambia tutto. C'è l'antidoto agli spari razzisti
Sta avvenendo una serie di episodi che diversi giornali riuniscono sotto il titolo comune di «tiro al negro». È deliberato, cosciente, maligno razzismo? Ci sarebbe dunque una ventata di razzismo subdolo, infingardo, crudele che soffia sulla nazione? Guardiamolo, valutando anche le tesi della difesa. Non costruiamo una mappa delle regioni più razziste, perché faremmo del razzismo sul razzismo.
Guardiamo gli episodi in sé, come si verificano, come vengono interpretati, come si cerca di giustificarli. Sul più clamoroso è intervenuto il capo dello Stato, parlando di «Italia come Far West»: nel Far West uno si compra un’arma, va per le strade, e spara a chi vuole. L’episodio a cui si riferisce il presidente Mattarella è accaduto a Roma e ha per vittima una bambina rom, e il razzismo ha per bersaglio unico rom e neri, come una volta rom ed ebrei. Qui lo sparatore ha sparato con un arma ad aria compressa e ha piantato una palla nella schiena di questa piccola di 13 mesi, causandole una lesione vertebrale per cui non si sa se potrà ancora camminare. Sua difesa: il colpo gli è partito, non era mirato. Accusa: il fucile era "truccato", modificato per aumentare la velocità del proiettile e la gittata; e poi: tra dov’era lo sparatore e dov’era la bambina, in braccio alla madre, s’interponeva una siepe con un solo varco angusto, e il colpo è passato giusto per quel varco. Ora, quella di "sparare per un varco" è una tecnica che s’impara sotto le armi, nelle esercitazioni di cecchinaggio. Tu stai pronto col dito sul grilletto, quando il bersaglio s’avvicina carichi l’energia sul dito, quando il bersaglio è nella tua mira rilasci l’energia e fai partire il colpo. Se questo tiratore ha potenziato l’arma, vuol dire che intendeva usarla da una distanza superiore a quella per la quale l’arma era stata progettata. Non sto dicendo che voleva invalidare una bambina, sto dicendo che, se voleva, era così che doveva fare.
A Napoli e a Forlì due episodi dalla tecnica simile, la vittima passa per strada e lo sparatore gli s’affianca in auto, una mano sporge dal finestrino, impugna una pistola ad aria compressa, dalla pistola partono i colpi. Quando lo sparatore è in movimento, mira al bersaglio grosso, la pancia. A Forlì c’era un gruppo di neri in attesa dell’autobus, gli sparatori si sono avvicinati in auto e hanno sparato nel mucchio, più colpi, a caso. Due feriti. Rapida fuga. La tecnica di "sparare nel mucchio" indica che l’odio (perché nel razzismo c’è odio) non va su uno in particolare ma sul mucchio, la massa. Una volta avremmo detto, e gli sparatori ancora dicono, "la razza". Chi fa un attentato, poi vuol conoscerne i risultati. L’attentatore il giorno dopo compra il giornale locale, e va alle cronache: vuol sapere chi è stato ferito, se è stato ricoverato, per quanto ne avrà. Son convinto che gli sparatori che hanno sparato nel mucchio, leggendo che i feriti sono soltanto due, ci son rimasti male. Il rischio che gli sparatori accettano è molto maggiore, comprende la morte, la cecità, l’invalidamento. E sparando in un mucchio di una dozzina di bersagli, sperano in mezza dozzina di vittime.
Sparare è un segno di potenza, non fare vittime è un segno di debolezza. Nella mia regione, nel Vicentino, uno del luogo ha ferito un immigrato, ma sostiene che aveva mirato a un piccione. Vuol forse dire, inconsciamente, che il "tiro al negro" è un nuovo "tiro al piccione"? Questo immigrato lavorava appeso a un’imbragatura, in alto, e una donna lo aveva pregato di pulirle il tetto dalle foglie. La richiesta lo ha fatto sentire utile e rispettato, gli ha fatto bene. Andar via da qui? Non ci pensa nemmeno. Gli hanno sparato un piombino e gli han fatto male, ma quel bene è più grande di questo male.