Dalle Ong una riflessione e uno sprone. Regeni, c'è da usare bene il «ritorno al Cairo»
Una manifestazione a Roma per la verità sulla morte di Giulio Regeni (Massimo Percossi / Ansa)
Caro direttore,
il ritorno in Egitto dell’ambasciatore italiano, dopo quasi un anno e mezzo di interruzione dei rapporti diplomatici, è una decisione che suscita comprensibilmente reazioni contrapposte di approvazione o indignazione. Lo testimonia in modo coinvolgente anche la recente intervista, ai genitori di Giulio Regeni, Claudio e Paola.
Realpolitik o responsabilità politica? Così affrontato, il dilemma rimane insanabile. Personalmente, mi auguravo da tempo che il governo assumesse questa decisione, spinto dal mio vissuto nelle relazioni internazionali e dalla pluriennale esperienza in contesti di gravi contrapposizioni ed emergenze umanitarie. L’ho espresso in modo trasparente alla famiglia Regeni sei mesi fa, ne ho discusso con associazioni dei diritti umani, pur rimanendo su posizioni differenti, l’ho motivato in sede parlamentare e governativa, l’ho reso pubblico come contributo alla riflessione.
Giungere alla verità ed ottenere giustizia per Giulio è un imperativo per ognuno di noi e lo Stato deve fare di tutto per pretenderle, con fermezza e perseveranza, senza alcun cedimento. L’Italia ha dato un segnale forte con il richiamo dell’ambasciatore. Ma a un anno e mezzo dal ritrovamento del corpo martoriato il raggiungimento della verità rimane in mano alle procure egiziana e italiana che continueranno ad avere periodi di collaborazione e periodi di stallo, che potrebbero prolungarsi per molti anni ancora. Fino a quando?
Nella nostra Italia mancano verità dopo decenni di indagini. È stato giusto pretendere sostegno da parte europea, essendo Giulio anche culturalmente un cittadino europeo, ma ancora una volta abbiamo verificato il debole grado di solidarietà tra gli Stati dell’Unione. Occorreva quindi aggiungere altro, non limitato alle severe dichiarazioni nelle sedi internazionali e alla pur straordinaria mobilitazione della pubblica opinione. Ho firmato anch’io l’appello delle organizzazioni dei diritti umani e faccio parte da sempre del mondo che li promuove, li difende ed è solidale con chi li vede quotidianamente calpestati.
Con il passare del tempo e con la mancanza di significativi progressi nelle indagini è però cresciuta in me la convinzione che l’Italia dovesse rimandare al Cairo il proprio ambasciatore. Diventava evidente che l’interruzione dei rapporti diplomatici non rappresentasse più l’arma migliore per premere sul governo egiziano ai fini della verità e che anzi contribuisse a un’attesa inconcludente e indefinita nel tempo, con il rischio di divenire un gesto politico sempre più fiacco e inutile. Il ritorno 'attivo' dell’ambasciatore non sarebbe stato una prescrizione de facto dell’orrendo delitto commesso.
Al contrario, una rappresentanza autorevole come quella dell’ambasciatore Cantini, con un mandato fermo del nostro governo, sarebbe potuta intervenire non solo agendo sulla Procura generale ma anche sulle autorità egiziane ai vari livelli istituzionali, con una ripresa di contatti tra Ministeri egiziani e italiani e tra membri dei due Parlamenti, moltiplicando l’azione di pressione. Anche la parallela presenza a Roma dell’ambasciatore egiziano avrebbe consentito una pressione costante, indispensabile allo scopo. Ora che la decisione è stata presa sarebbe disdicevole che la presenza al Cairo dell’ambasciatore continuasse a essere contrastata o usata a fini di lotta politica interna. Due condizioni possono a mio avviso aiutare a superare, almeno in parte, la controversia: il preciso mandato politico e la definizione di significative azioni positive.
Da un lato, iniziative da dedicare a Giulio Regeni, al fine di ricordarlo, onorarlo e ricordare continuamente, in Egitto, la necessità di verità e giustizia, tenendo costantemente alta l’attenzione. Oltre all’Università italo-egiziana e all’auditorium dell’Istituto italiano di cultura al Cairo, come si legge nel comunicato del ministro Alfano, si potrebbero a lui intitolare premi per tesi di laurea, programmi di formazione e scambi universitari, borse di studio, iniziative a favore di start-up di egiziani giovani come lui e altre che le realtà italiane presenti in Egitto potrebbero a loro volta sostenere e moltiplicare. Dall’altro lato, interventi di cooperazione finalizzati all’affermazione e tutela dei diritti umani e della dignità della persona. Il ritorno dell’ambasciatore non deve essere quindi un segnale di debolezza o di cedimento, ma un modo per moltiplicare l’azione e la pressione per la verità su Giulio e per i diritti fondamentali in Egitto.
* presidente emerito di InterSos