Opinioni

Il processo. Anche lo Stato sia vicino alla famiglia Attanasio

Diego Motta venerdì 7 luglio 2023

L’Italia dei muri di gomma rischia di lasciare sola un’altra famiglia e un’altra comunità, scrivendo un’altra pagina buia nell’elenco delle stragi che hanno riguardato i suoi cittadini più illustri. È attesa per oggi, infatti, la decisione del governo sulla costituzione di parte civile nel processo Luca Attanasio, che vede imputati due funzionari del Pam, il Programma alimentare mondiale, accusati di non aver garantito la sicurezza all’ambasciatore ucciso in Congo il 22 febbraio 2021, nell’agguato in cui sono morti anche il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista Mustapha Milambo.

Fino ad oggi lo Stato non si è mai presentato alle udienze, neppure attraverso la presenza semplice dell’Avvocatura. Un segnale che ha ferito non solo la famiglia e gli amici di Luca, ma un’intera comunità che oggi scenderà in piazza a Limbiate, in Brianza, suo paese natìo. Sarà l’espressione di una società civile che non può fare a meno di far sentire la propria voce, accanto a quella della moglie di Luca, Zakia, e del papà, Salvatore, che da due anni tengono vivo il ricordo e l’impegno concreto del nostro diplomatico. La scelta del silenzio delle istituzioni nazionali si lega comprensibilmente alla rete di relazioni e di accordi in essere con le agenzie Onu coinvolte nella vicenda, che garantiscono al proprio personale l’immunità “per tutti gli atti compiuti nell’esercizio” delle proprie funzioni.

Dal punto di vista dell’opinione pubblica, però, e ancor di più da quello della coerenza tra valori proclamati e scelte conseguenti, il segnale che verrebbe dato con l’assenza dal processo (cosa peraltro non avvenuta in Congo, dove nel procedimento parallelo Roma si è costituita parte civile) sarebbe evidentemente molto pesante. Lo Stato ha tutto l’interesse a esserci, per far capire che è dalla parte di chi lo ha rappresentato con onore e merito, in vita e in morte. Mentre a Piazzale Clodio oggi si svolgerà l’udienza, occorrerà guardare ancora una volta a chi non vuole dimenticare Attanasio e scenderà in piazza per chiedere chiarezza sulla sua morte: ci sarà il mondo cattolico, tanta società civile, sindacati e universo laico. È qualcosa che ricorda quel che accadde sin dall’inizio (e accade ancora adesso, ogni anno) a Fiumicello, dove visse Giulio Regeni, il ricercatore trovato morto al Cairo il 3 febbraio 2016.

Come in quel caso, lo sgomento iniziale di pochi è diventato in breve tempo motivo di mobilitazione per molti: striscioni gialli, presìdi davanti ai Comuni, trasmissioni televisive, flash mob. Giulio aveva 28 anni quando venne trovato cadavere al Cairo, Luca di anni ne aveva 43, quando ha perso la vita a bordo di un convoglio umanitario. La domanda di verità e giustizia delle famiglie è diventata in poco tempo, fatte le debite proporzioni e considerati i diversi contesti di partenza e i percorsi dei ragazzi coinvolti, un simbolo per tutti: non si può abbassare la guardia e non si può restare isolati nella domanda di giustizia.

Qui davvero si vede il peso di uno Stato che non ha paura di confrontarsi con poteri forti, nazionali (come l’Egitto di al-Sisi) e sovranazionali (come l’Onu). Nel dicembre scorso, rispondendo all’appello di Renata Capotorti, madre di Graziella De Palo, giornalista scomparsa a Beirut il 2 settembre 1980 assieme al collega Italo Toni, la premier Giorgia Meloni assicurava il suo impegno nella ricerca della verità su quanto accaduto in Libano nel 1980.

Un impegno preso “da madre a madre” scriveva, evocando la necessità di un impegno pubblico nel dare risposte ai cittadini, soprattutto verso chi attende da tempo che venga fatta luce sulla propria storia familiare e personale. Quel tempo non può scadere oggi.