Nel nostro Paese, tradizionalmente, nel mese d’agosto ci si vuole dimenticare del lavoro: è il tempo delle ferie, quando possiamo lasciare indietro la 'fatica' per riposare e avere, finalmente, tempo libero, per noi e per le nostre famiglie. Solo che ormai da alcuni anni una delle più grandi fatiche riguarda proprio la mancanza di lavoro: per i molti che un impiego l’hanno perduto e non riescono a ritrovarlo, per i moltissimi – ancora di più – che non l’hanno mai trovato. Che strani tempi i nostri, così oscillanti tra una delirante onnipotenza e un continuo ricadere in una disperata nella disillusione e persino nella rassegnazione. Le cronache ci riportano di continuo questo sentimento ondulatorio, in cui la pretesa di una totale autodeterminazione configge con la scoperta di una realtà avara, almeno in apparenza. In tutto ciò, come si muovono le nuove generazioni? I dati continuano a rimandarci l’immagine di una gioventù italiana bloccata, che non riesce a trovare realizzazione nell’ingresso nell’età adulta. Che non trova un lavoro soddisfacente o che, addirittura neppure più lo cerca. Una gioventù che, con troppa frequenza, non ha trovato un suo posto nella scuola e l’ha abbandonata, oppure che ha studiato convinta di poter trovare un impiego corrispondente, che però non c’è o è per pochi. Spesso ci viene rimandata l’immagine di una generazione sconfitta, che si arrende, che si è arresa, e che per questo non vuole lavorare più. Così ci si arrende al non-lavoro, al non-studio, alla nonvita, magari funestata dal tragico esito di un qualche 'sballo' estivo. Che terribile verbo è arrendersi! Nella retorica dell’uomo misura ultima di sé, la resa è l’ultima, definitiva sconfitta, a fronte dell’impossibilità di scegliere il proprio destino. Però il lavoro non è una scelta. Il lavoro è la condizione normale di chi è fatto a immagine e somiglianza del Creatore. Poi può accadere che aderire alla propria natura di lavoratore possa portarci in contrasto con un mercato che non tiene necessariamente conto dei nostri desideri. Così ci inventiamo dei meccanismi che ci permettono di negare la realtà, ad esempio un reddito di cittadinanza di tipo assistenzialistico che per alcuni addirittura dovrebbe determinare la possibilità di scegliere se lavorare o meno. Certo, scegliere per il non-lavoro è un possibile frutto della sconfinata libertà dell’uomo, ma porta con sé il frutto avvelenato della negazione della propria identità. E a questo punto si ripropone la questione dell’arrendersi. C’è nell’esperienza umana un arrendersi positivo, un cedere alla realtà, non per viltà o rassegnazione, ma per un realismo autentico? La questione evidentemente riguarda, ancora una volta, la dinamica educativa. È solo in virtù di una 'buona' educazione che un ragazzo (ma non è diverso per ciascuno di noi adulti) può reagire allo
Zeitgeist, che propone come unica alternativa la vittoria del proprio particolare o il perdersi rassegnato nella massa delle vittime. Allora mi viene alla mente la più grande maestra di positiva arrendevolezza: Maria, la donna vestita di sole, di cui proprio in agosto facciamo memoria, che di fronte a una proposta incomprensibile e – immaginiamo – ben diversa da quanto poteva essere desiderabile per una normale ragazza ebrea di due millenni fa, disse «accada di me secondo la tua parola». Si arrese, Maria, a un disegno che la precedeva e così facendo diventò una immensa protagonista della storia. C’è dunque un’accezione buona, positiva, generativa dell’arrendersi alle circostanze date. Una resa che ci permette di cogliere fino in fondo la nostra natura e che riempie di ragioni la fatica del nostro vivere quotidiano, così grande quando non riuscendo ad afferrare il nostro desiderio ci pare non ci sia più nulla di desiderabile. Una resa che non conclude, ma da cui è possibile ripartire.