Disabili, testimonianza. Brutti anatroccoli che non saranno cigni. E non fanno notizia
Disabilità per me è soprattutto vita quotidiana. Quasi da sempre. Sono fratello di Paolo, persona down di 60 anni e padre di Edoardo, Dodò, disabile di 30 anni con un grave ritardo psicomotorio. Come sanno i lettori di “Avvenire”, mi occupo di mafia, ambiente, immigrazione, azzardo. Di disabilità per molto tempo non ho voluto scrivere. Per due motivi. Da un lato, una sorta di riserbo, di pudore, a scrivere di qualcosa che mi riguardava direttamente. Dall’altro, il timore di essere giudicato come un privilegiato, che grazie al suo lavoro di giornalista può denunciare la sua condizione, mentre altri devono tacere o sono tacitati.
Questo fino al 2000, quando mi convinsero a raccontare la storia della nostra famiglia, di cose fosse vivere con un bimbo disabile. Lo feci sulle pagine del nostro inserto “Noi” (in quella stagione aveva cadenza mensile). Dopo otto anni, in occasione dell’ennesimo dramma di un padre che aveva ucciso il figlio autistico, raccontando poi della condizione di solitudine in cui vivevano, l’allora direttore Dino Boffo mi convinse a scrivere l’editoriale di prima pagina che venne intitolato «Quella disperata solitudine». Avevo usato parole forti, sicuramente non “politicamente corrette”. Ma fece effetto. Molte famiglie di disabili mi ringraziarono, proprio perché ero stato sincero. Raccontando la dura ma vera realtà.
È qui il primo punto su cui vorrei riflettere. L’informazione sulla disabilità ondeggia tra la ricerca del dolore, del dramma, del caso, dello scandalo, e la spettacolarizzazione. Si racconta il disabile respinto a scuola, quello che non può fare la gita scolastica, quello che non può uscire di casa perché la carrozzina non entra nell’ascensore, o ancora i disabili maltrattati in una Rsa. Si racconta dei falsi invalidi, dei falsi ciechi. Ma non si racconta mai chi c’è dietro: medici, avvocati, consulenti, impiegati pubblici. E spesso anche politici che fanno ottenere la pensione in cambio di voti. Così il falso invalido è l’unico cattivo. E questi casi, per certa stampa, sono facile motivo per colpevolizzare tutto il mondo della disabilità. O all’opposto si raccontano i disabili geni o i disabili campioni (nello sport e non solo). Quasi fenomeni da baraccone da esibire. Alibi per poter continuare a dire “diversamente abili”, parole che proprio i disabili non sopportano. Perché sembrano solo una giustificazione, “tanto voi siete solo diversamente abili”. Invece non si racconta mai, o quasi, la quotidiana a-normalità. Cioè la quotidiana fatica di cercare una vita normale sapendo bene che mai lo sarà. La vita normale, purtroppo, non fa notizia, con le sue grandi e piccole fatiche, e non solo per i disabili.
Ci vuole il botto. Altrimenti silenzio.
Penso che fu per questo quei miei primi articoli sul tema lasciarono il segno, proprio perché raccontavo dall’interno questa vita quotidiana. Poi mi accorsi che c’era un altro pezzo di informazione che risultava sempre insufficiente: l’informazione di servizio. L’ho capito quando, andando alla Asl, sapevo bene quali fossero i diritti di nostro figlio. Negli anni mia moglie e io siamo diventati bravissimi, abbiamo letto leggi, decreti, regolamenti, abbiamo preteso e ricevuto tutto quello che spetta a Dodò. E non ci prendono più per il naso. Anzi alcune volte ci siamo ritrovati a essere “precursori”. Ma proprio quando facevo la fila alla Asl vedevo genitori, spesso anziani, che non conoscendo bene leggi e regole si accontentavano di quello che diceva l’impiegato, lo accettavano in silenzio. Poche briciole e mai una decente pagnotta. E non poche volte avrebbero avuto diritto a di più, ad altro. Così accettai di scrivere anche a questo proposito, grazie anche a esperti dei veri diritti dei disabili e delle loro famiglie. Quelli esistenti, quelli da difendere, quelli da rivendicare.
C’erano da spiegare le procedure per i permessi auto, per l’esenzione delle tasse automobilistiche, per le ore di sostegno, per evitare i tagli delle pensioni e l’inserimento dell’indennità di accompagnamento nell’Isee. A chi spettava, e come, ottenere l’aumento della pensione di invalidità stabilito finalmente da una sentenza della Consulta. Un fronte informativo che dovrebbe far riflettere sulla funzione di servizio del nostro mestiere. Ma anche sul ruolo di denuncia che deve svolgere.
Non nascondo che alcune delle maggiori soddisfazioni nella mia ormai lunga militanza giornalistica sono frutto proprio di alcune battaglie sui diritti dei disabili, contro provvedimenti assurdi, punitivi o anche solo confusionari. Ultima quella sulle vaccinazioni, quando la solita burocrazia aveva inserito alcune patologie prioritarie escludendo quelle mentali o altre fortemente invalidanti. Non sapendo, o non volendo sapere, che la pandemia e il lockdown sono stati un vero dramma per quei disabili costretti a casa, senza capire il perché, obbligati a non avere quei contatti fisici che fanno parte della loro terapia. Per non parlare del terrore dei familiari di poter portare in casa il contagio. Solo dopo vari articoli la situazione si è sbloccata. Anche se pochi giornali, oltre ad “Avvenire”, ne hanno scritto.
Infine, una riflessione un po’ dura: nella comunicazione non tutte le disabilità sono uguali, non tutte sono considerate “notiziabili”. Trova molto spazio la disabilità fisica, la carrozzina, le protesi. Nel bene e nel male. Forse perché sono disabili che parlano, che si esprimono. Ed è più facile e, a volte, anche spettacolare raccontarli. Così anche le persone down, allegre, simpatiche, comunicative. Negli ultimi anni, è cresciuta l’attenzione verso il mondo dell’autismo, aiutata anche da alcuni noti genitori, pure giornalisti. Nulla o quasi, invece, è rimasta l’attenzione verso altre forme di disabilità mentale, quella di ragazzi e adulti poco comunicativi e per nulla, costretti in carrozzine, ma che urlano e si dimenano, brutti, sporchi e cattivi, mi verrebbe da dire. Brutti anatroccoli che mai diventano splendidi cigni. Ma i loro genitori? Non ci sono per i media, per giornali e tv.
Disturbano? Spaventano? O solo ti costringono a vedere quello che non vorresti vedere? Anche loro li chiameremo diversamente abili? Stanno col pannolone, anche a 50 anni. Anche a 50 anni sono da imboccare. Ma anche loro sono capaci di un sorriso. Perché quel sorriso non fa notizia?