Più grande della colpa /16. Le sante parole degli scartati
Il Baalschem disse a uno dei suoi discepoli: «L’infimo degli infimi che ti venga in mente, io l’amo di più di quanto tu ami il tuo unico figlio».
Martin Buber, Storie e leggende chassidiche
Aruspici, maghi, indovini, sono una nota ricorrente nella Bibbia. Sono una forma di falsa profezia molto diffusa nell’antichità e duramente combattuta dai profeti, che ha rappresentato una tentazione costante e molto seducente per Israele (alla quale spesso ha ceduto). Espressione di una religiosità popolare arcaica che non è mai scomparsa, che nei nostri giorni alimenta un business fiorente. La fede biblica non è minacciata dall’ateismo, ma dalla sostituzione di YHWH con dèi naturali e più semplici – ieri e oggi, nella fede e nella vita, dove l’eterna tentazione è convincersi che siamo qualcosa di più piccolo e banale di quella realtà complessa e bellissima che invece siamo. «Davide pensò: Certo, un giorno o l’altro sarò tolto di mezzo per mano di Saul. Non ho miglior via d’uscita che cercare scampo nella terra dei Filistei» (1 Samuele 27,1). Davide continua a dar mostra del suo genio nel trovare soluzioni improbabili ma efficaci ai suoi problemi. Ora, per salvarsi, decide di allearsi con il nemico, passando dalla parte dei filistei. Compie imprese militari di successo, razzie e grandi bottini. Incastonati tra le scorrerie di Davide, troviamo gli ultimi giorni della vita di Saul, tra i più intensi ed emozionanti dell’intera Bibbia.
Samuele era morto. Saul, obbedendo alla legge di Mosè, aveva cacciato via da Israele «negromanti e indovini» (28,3). La situazione politica sta però precipitando. I filistei marciano minacciosi verso Saul. Il re capisce che la superiorità militare filistea è schiacciante, e viene preso dal panico: «Quando Saul vide il campo dei Filistei, ebbe paura e il suo cuore iniziò a battere forte» (28,5). Sente che solo un intervento straordinario di YHWH potrebbe salvarlo. Confida ancora nel suo Dio, e gli chiede aiuto: «Saul consultò il Signore e il Signore non gli rispose, né attraverso i sogni, né mediante gli urìm [sorte sacra], né per mezzo dei profeti» (28,6). L’ennesimo fallimento di Saul, l’ennesimo silenzio di Dio per lui. Saul continua a confidare in quel Dio che lo aveva chiamato e unto tramite Samuele. YHWH però un giorno ha smesso di parlare con lui, e non ha ricominciato più, fino alla fine. Questo silenzio di Dio pone delle domande difficili, non può lasciarci indifferenti. Saul è circondato, il suo popolo sta per capitolare, e Dio non parla. I profeti tacciono. Tutto è oscurità, la notte non finisce mai, e i sogni sono popolati solo da fantasmi e da incubi.
La teologia e l’esegesi ci offrono alcune spiegazioni a questo silenzio e a questo buio, che però non fanno altro che accrescere la nostra pietas per questo re ripudiato e abbandonato al suo triste destino. Una pietà del lettore che può continuare anche quando Saul, disperato, ricorre a un’ultima risorsa illecita e scandalosa, che lui stesso aveva combattuto. Ed è qui che ci imbattiamo in una delle scene più note e belle della Bibbia: «Allora Saul disse ai suoi ministri: "Cercatemi una negromante, perché voglio andare a consultarla"» (28,7). Saul si traveste per non farsi riconoscere e si reca dalla strega di Endor.
Questo travestimento di Saul ci evoca molte cose. I tanti disperati che, esaurite le risorse lecite della medicina e della scienza, si rivolgono a guaritori e santoni perché non vogliono morire. Spesso si "travestono" per non farsi riconoscere, per vergogna verso quella parte del loro cuore che quella cosa non farebbe mai, che l’aveva tante volte criticata e condannata negli altri. O i molti imprenditori, alcuni anche buoni e onesti, che il giorno prima di portare i libri in tribunale, e magari dopo aver guardato negli occhi lucidi un dipendente, di nascosto e di notte vanno da un usuraio in cerca di quel prestito "dal regno dei morti" per continuare a sperare o ritardare solo di un giorno la fine. O a quegli uomini, e molte donne, che, disperati, si aggrappano all’ultimo filo di speranza di salvare la propria famiglia e vanno, in segreto, da maghi e fattucchiere per farlo tornare a casa. Sono questi i tanti fratelli e sorelle di Saul, non tutti cattivi, ma tutti disperati e immersi in un immenso buio e in un assordante silenzio di Dio (e degli uomini). Il manto di pietà che la Bibbia getta su Saul arriva fino ad avvolgere tutti i suoi compagni e compagne di sventura che, disperati come lui, continuano a travestirsi e a "invocare i morti" per non morire.
Quando la lettura della Bibbia si sofferma su queste umanità ferite e fragili, ci chiede sempre di prendere posizione, di dire da quale parte stiamo. Possiamo decidere di stare con la teologia ufficiale, con il Dio degli scribi, del tempio e della legge, e condannare Saul e i tanti disperati come lui. Ma possiamo, con coraggio, decidere invece di diventare solidali con la numerosa famiglia di questo re rigettato, scorgere negli occhi lacrime inconsolate; fermarci un po’ con loro, accompagnarli con la nostra compassione, e poi riconciliarci con i nostri atti disperati e con quelli dei disperati attorno a noi. E poi senza giudicarli ci facciamo loro prossimi, li raccogliamo mezzi morti lungo la strada, li mettiamo sul nostro asino, laviamo le loro ferite col vino, li portiamo all’albergo, e lasciamo in pegno i nostri ultimi due denari. «La donna disse: "Chi devo evocarti?". Rispose: "Chiamami Samuele"» (28,11). Un altro, straordinario, colpo di scena. Saul vuole Samuele, il profeta che lo aveva trovato e consacrato re, che lo aveva poi ripudiato, e non lo aveva perdonato. Il testo - anche per alcune sue possibili alterazioni - non ci dice perché Saul invocasse Samuele. Forse perché era l’immagine della sua prima vocazione vera, dello spirito buono che prima di abbandonarlo gli aveva trasformato il cuore, perché voce della parte migliore della sua anima. O forse per un bisogno estremo di verità seppur cercata nel modo sbagliato. Non lo sappiamo - la Bibbia è viva anche per i suoi molti buchi e spazi aperti che diventano le ferite dove il testo nasce e rinasce con noi suoi lettori.
Appena la donna udì il nome di Samuele, «lanciò un urlo altissimo e disse a Saul: "Perché mi hai ingannata? Tu sei Saul"» (28,12). È straordinario questo urlo della donna, e altrettanto straordinario è come la donna riconosce Saul: mentre pronuncia il nome di Samuele. Samuele è per la donna l’immagine della condanna del suo mestiere, della profezia sbagliata, delle tecniche di divinazione, della magia. Da qui, forse l’urlo. Ma perché riconosce Saul nel dire "Samuele"? Forse perché ogni persona ha un suo modo di pronunciare il nome delle persone decisive della sua vita, un suo accento inconfondibile, un timbro calligrafico unico. Ogni cristiano dice "Gesù" diversamente da tutti gli altri cristiani, ogni figlio dice "mamma" a modo suo, e il nome con cui chiamiamo la nostra sposa è diverso da come lo pronunciano tutti gli altri. Si può riconoscere un francescano, magari "travestito" e senza saio, da come dice "Francesco". Nessun travestimento resiste alla pronuncia di certi nomi speciali, perché nel dirli torniamo nudi come il primo giorno (anche per questa ragione quando decidiamo, per il grande dolore, di cancellare il nostro passato, iniziamo con il dimenticare certi nomi).
Ciò che è ancora più sorprendente e per alcuni versi sconcertante, è l’obbedienza dello spirito di Samuele all’invocazione della donna. Lei dice:«"Vedo un essere divino che sale dalla terra. Saul le domandò: "Che aspetto ha?". Lei rispose: "È un uomo anziano che sale ed è avvolto in un mantello". Saul comprese che era veramente Samuele, s’inginocchiò con la faccia a terra, si prostrò» (28,13-14). Semplicemente splendido! (non è facile commentare questi versi, che tolgono il fiato, fermano la mano sulla tastiera, aumentano i battiti del cuore). È lui: Saul non ha dubbi, in questi momenti non si hanno dubbi. Noi ora ci aspetteremmo parole diverse da Samuele. E invece ritroviamo le parole di sempre. Samuele non cambia - sta anche in questa coerenza ieratica la grandezza di Samuele. E dice a Saul: «Il Signore ha strappato da te il regno e l’ha dato a un altro, a Davide (...). Il Signore metterà Israele insieme con te nelle mani dei Filistei. Domani tu e i tuoi figli sarete con me» (28,17-19). Le parole del profeta non cambiano. Ma le nostre possono cambiare; possiamo sussurrare ora parole diverse all’orecchio di Saul, mentre giacciamo a terra, accanto a lui: «Saul cadde di schianto a terra, lungo disteso, spaventato a morte dalle parole di Samuele» (28,20). Saul vuol morire, dopo aver esaurito quell’ultima sua risorsa clandestina.
Ma è proprio qui che questo capitolo ci dona la sua ultima perla, anche questa imprevista e improbabile: «Allora la donna si accostò a Saul e, vedendolo sconvolto, gli disse: "Ecco, la tua serva ha ascoltato la tua voce... Ma ora ascolta anche tu la voce della tua serva. Voglio darti un pezzo di pane: mangia e così riprenderai le forze"». Anche una negromante, anche una maga può essere capace di pietà, nella vita e nella Bibbia. Quella donna qui vince il suo cattivo mestiere, perché tutti siamo potenzialmente capaci di fare cose e dire parole migliori di quelle che la vita ci fa fare e dire tutti i giorni. E le sue parole "risorgono" Saul: «Egli rifiutava e diceva: "Non mangio". Ma i suoi servi insieme alla donna lo costrinsero ed egli ascoltò la loro voce» (28,21-23). In questa scena di morte e di buio un raggio luminoso che emana da una donna scartata e scomunicata illumina tutto l’ambiente: «Saul si alzò da terra e sedette sul letto. La donna aveva in casa un vitello da ingrasso; si affrettò a ucciderlo, poi prese la farina, la impastò e gli fece cuocere pani azzimi. Mise tutto davanti a Saul e ai suoi servi» (28,23-25).
La negromante diventa il "padre misericordioso", che festeggia col suo vitello grasso un uomo-figlio "che era morto", e, anche per solo il tempo di una cena, è "tornato in vita". E il "fratello maggiore" siamo noi, che non entriamo al banchetto perché scandalizzati dall’eccesso di umanità della Bibbia. Un brano meraviglioso, che ci rivela l’infinita umanità della Bibbia. Che ci svela anche il cuore delle donne, capaci di sguardi buoni e diversi quando la religione, la legge, i maschi li hanno esauriti. L’ultima cena di Saul fu voluta e apparecchiata da una maga, da una negromante, da una donna, da una persona che, forse, gli diede l’ultimo abbraccio misericordioso, gli regalò le ultime parole buone che la vita, Samuele e Dio gli avevano negato. La Bibbia è in-finita anche per le parole e i gesti di donne e uomini ordinari, spesso scartati e peccatori, che consentono alla parola biblica di essere, qualche volta, più umana delle parole di Dio pronunciate dai suoi profeti.
l.bruni@lumsa.it